Tutti noi dovremmo piangere di fronte all’immagine che ha vinto il World Press Photo
La guerra non ha volto, non ha nome, non ha età. La guerra sono due corpi incastrati in un abbraccio che non è più possibile. Una donna viva che stringe a sé le spoglie di una bambina morta. Il bianco di un lenzuolo, il blu di un abito, le lacrime nascoste da un velo zafferano che copre anche i capelli. L’umana rappresentazione di un dolore muto, antico come il mondo, come l’ingiustizia, come la guerra. Il grido di una mano, la sinistra, quattro dita che sfiorano un involto informe sono l’unico brandello di carne visibile, una carezza di pietà a suggerirci che, nonostante tutto, siamo umani, che possiamo ancora esserlo.
Dobbiamo piangere davanti a questa foto, perché la sofferenza non ha patria, non esiste bandiera sotto la quale non la si possa riconoscere, così come la compassione. Dobbiamo piangere se siamo vivi, dobbiamo piangere per tutti i nostri morti, quelli che abbiamo amato e quelli sconosciuti. Piangere per i morti di Gaza, per quelli di Israele, per quelli della guerra tra Ucraina e Russia, piangere per quelli naufragati in mare, per quelli travolti dal crollo di una diga, per quelli periti sul lavoro. Piangere davanti a questa immagine che ha vinto il World Press Photo è la nostra opportunità per non rischiare l’estinzione, per non farci disseccare dalla conta quotidiana delle vittime che ci indurisce i lineamenti perché sono troppe per poterle piangere una per una, e perché sono lontane, e perché sono sconosciute, e perché non abbiamo capito ancora chi ha torto e chi ha ragione. Dobbiamo piangere davanti a questa foto senza pretendere spiegazioni, senza voler capire, perché i morti non hanno mai torto, perché una bambina di cinque anni avvolta in un lenzuolo bianco ha sempre ragione, qualunque sia la nazionalità, chiunque sia il cattivo. Piangere per la carezza ostinata della zia che la tiene e non la lascia andare, piangere per la nostra buona e per la nostra cattiva coscienza, restare svegli la notte pensando a questa foto, perché ci sono notti in cui la coscienza deve restare vigile e non lasciarsi assopire dalla noncuranza.
Dobbiamo piangere perché in questa foto c’è Maria a occhi bassi con il figlio marmoreo tra le braccia, c’è la Maddalena di Masaccio ai piedi della croce chiusa in un grido di dolore rosso come il suo vestito, c’è quel cereo compagno di giochi cantato da Pascoli, che al vento non vide cader che gli aquiloni, e accanto a lui c’è sua madre a pettinargli i bei capelli a onda, «adagio, per non fargli male».
Dovremmo piangere tutti senza vergogna, come solo sanno fare i bambini, un pianto fragoroso e non silente, con i singhiozzi, le lacrime, il moccio al naso. Un lungo perpetuo ululato, ritmato come una cantilena, che si diffonda di terra in terra per dire no alla guerra. Ritornare, di fronte a questa foto, all’ingenuità di un «no e basta», di un «no perché no», che non ammette ragioni, battere i piedi a terra, piangere e dire no.
Questi due corpi che formano una ics sono la croce che deve ricordarci giorno per giorno che la croce la portiamo tutti, ed è la stessa, più piccola o più grande, è sempre croce.
Forse è per questo che, tra le tante immagini di morte, di devastazione, di dolore che sono passate sotto i nostri occhi ormai offuscati dagli orrori, questa qui è destinata a restare: perché se quella donna senza volto alzasse gli occhi potremmo riconoscerci allo specchio.
Fonte: LaStampa