L’Italia è il Paese europeo dove si verificano più morti per il caldo ma non riusciamo a utilizzare neppure i fondi del Pnrr per la riforestazione dei centri urbani. Eppure alcuni privati e singole iniziative pubbliche indicano la via di un cambiamento ormai inevitabile
L’Italia sta vivendo la prima vera ondata di calore dell’estate 2024 con temperature fino a 41 gradi. Valori lontani da quelli raggiunti in Arabia dove oltre mille pellegrini sono morti per il caldo a La Mecca. Ma anche senza spostarsi verso latitudini mediorientali le alte temperature uccidono sempre più, anche da noi. E a parlare sono i numeri. Se nel corso del 2022 l’Italia ha fatto registrare il record europeo di oltre 18mila morti per caldo eccessivo (il 30% delle vittime del Vecchio Continente), l’estate è stata critica anche nel 2023. Le temperature superiori ai 40° hanno determinato, la scorsa estate, oltre 500 morti premature al Sud Italia, con picchi di mortalità eccessiva significativi soprattutto a Reggio Calabria (+63%) e Campobasso (+53%).
E uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet, basato su un arco temporale di 20 anni (dal 2000 al 2019), ci restituisce in pieno l’anomalia: in Italia si muore per caldo eccessivo molto più che altrove. Nel frattempo le previsioni degli scienziati non sono ottimiste: dobbiamo prepararci a ondate di calore sempre più intense. Eppure stiamo facendo molto poco per arginare il fenomeno.
L’effetto “isola di calore” e i suoi pericoli
In gergo si chiamano “isole di calore”. Con questo termine si intende la differenza di temperatura che in estate si registra nelle aree urbane cittadine rispetto a quelle periferiche e rurali. Le cause? La massiccia cementificazione, che impedisce la dispersione del calore, la penuria di verde pubblico, l’effetto delle emissioni inquinanti e dell’uso dei condizionatori. Tutti questi fattori contribuiscono al surriscaldamento in città con effetti che possono essere molto pericolosi, soprattutto per i più anziani.
Se la temperatura corporea deve essere infatti mantenuta all’interno di un range che va dai 36 ai 37 gradi, il nostro organismo adotta tutta una serie di strategie per adattarsi a temperature molto calde. Il rischio è quello della vasodilatazione (che comporta un relativo abbassamento della pressione sanguigna) che può essere particolarmente pericolosa per gli anziani e per chi soffre di problemi cardiaci e coagulazione del sangue. L’altro rischio è quello dell’eccessiva sudorazione che può indurre alla disidratazione e un affaticamento renale importante. Anche in questo caso i soggetti più a rischio sono anziani, diabetici e soggetti con problemi mentali, quindi meno inclini a cogliere i segnali di un’eventuale carenza di liquidi.
I rimedi invece, almeno a livello urbanistico, sono noti da tempo. “Una delle prime cose da fare è cominciare a depavimentare le superfici perché il cemento in molti tratti non serve: si pensi a piazze, spartitraffici e quant’altro” ci spiega Gabriele Nanni, responsabile osservatorio “CittàClima” di Legambiente. La decementificazione ha il pregio di evitare l’accumulo di calore e favorire la dispersione dell’acqua nelle falde, in caso di eventi climatici estremi. Una città molto attiva in questo senso è Milano che, a oggi, vanta un programma specifico di 250mila metri quadri sui quali intervenire in area urbana.
Ma gli interventi da realizzare sono variegati. Dalla riduzione delle emissioni (che creano una sorta di effetto gas serra) all’aumento delle aree alberate e ai “tetti verdi” che, specie nel Nord Europa, contribuiscono a diminuire la temperatura degli edifici, fino alla scelta dei materiali più ecocompatibili con i quali costruire le abitazioni. Accorgimenti su tutti gli enti locali operano in modo autonomo.
“Il problema è che non c’è una cabina di regia, il tutto ricade nel ‘Piano di adattamento ai cambiamenti climatici’ che non è ancora attuativo. Inoltre mancano finanziamenti e fondi specifici” osserva Gabriele Nanni. Intanto rischiamo di perdere una delle partite principali: quella del verde pubblico.
Così i “tagli” rischiano di bruciare anche le risorse del Pnrr
Grazie al Pnrr ci eravamo dati l’ambizioso progetto di piantare circa 6,6 milioni di alberi nelle nostre città. Un piano che è stato dapprima ridimensionato e che rischia di arenarsi completamente per l’impossibilità di portare a termine l’obiettivo.
Ma è la stessa legge a essere carente. “Si è scelto di limitare il progetto solo alle città metropolitane: ad esempio Frosinone, tra i centri più inquinati d’Italia non ne aveva bisogno? E che dire dei molti cittadine della pianura padana?” Domanda ironicamente Antonio Nicoletti, responsabile biodiversità di Legambiente.
Ma i problemi sono anche altri, in primis quello del taglio delle risorse pubbliche che si è abbattuto anche sul nostro patrimonio forestale. “Negli ultimi 30 anni le regioni hanno definananziato il vivaismo pubblico e demandato tutto al privato. E oggi ci manca un serbatoio che ci offra materiale genetico certificato come le piantine, ad esempio. È come con le mascherine durante la pandemia: si è puntato sull’esternalizzazione e oggi ci rendiamo conto che siamo nei guai” commenta Nicoletti.
Tutto questo ci espone a un ritardo strutturale: si è dovuto ripartire in molti casi da zero, dai semi e dai vivai. E il timore è che, a fine 2024, quando verrà effettuato il censimento delle piante messe a dimora, salti tutto. “Il rischio è che questa iniziativa venga tagliata perché non si raggiungerà un obiettivo minimo. Se questo avviene le responsabilità saranno di tutti, a partire da chi poteva apportare correttivi e non lo ha fatto” conclude Nicoletti.
Da una vecchia fattoria a un villaggio ecocompatibile
Esiste però anche un’Italia che, a livello locale, resiste e che prova a reagire alle sfide del cambiamento climatico in modo originale. “Avevamo come terreno di famiglia la fattoria di mio nonno. Per anni è stata una monocoltura a foraggio circondata da case, poi nel 1987 il comune lo ha reso edificabile. In comune mi hanno proposto dei progetti obsoleti, così mi sono messa a studiare e dal 2001 ho provato a valorizzare un posto di cui sono innamorata” ci spiega Silvia Pini, imprenditrice e ideatrice dell’Eco Villaggio di Montale.
Immediatamente al di fuori della porta sud di Modena, e a 6 chilometri dal suo centro storico, il progetto oggi si compone di 150 alloggi ecocompatibili, un parco dove trova spazio flora e fauna locale, un’area ciclopedonale, una palestra e una piazza. Tutto all’insegna della sostenibilità: solo nel 2023 l’area ha assorbito 2200 tonnellate di Co2.
E il principio al quale tutto è ispirato è quello della cosiddetta “passive house”, ovvero all’idea che gli edifici provvedano al loro fabbisogno energetico autonomamente, grazie a opportuni accorgimenti. Ad esempio tramite l’efficientamento e l’uso di fonti energetiche come il fotovoltaico.
“Da un lato abbiamo edifici che non emettono Co2 per la climatizzazione degli ambienti e l’acqua calda, dall’altro lavoriamo sulla riforestazione e abbiamo messo a dimora 250 piante e 6500 arbusti che limitano di molto il calore e gli eventi climatici estremi. Inoltre prestiamo molta attenzione al ciclo dell’acqua lavorando sullo stoccaggio dell’acqua piovana e sul suo assorbimento da parte delle falde acquifere: abbiamo perfino riattivato i vecchi pozzi artesiani della fattoria” osserva Silvia Pini.
Nel futuro dell’ecovillaggio ci sono anche uno shop alimentare, un ristorante sostenibile e un asilo pubblico in realizzazione con i fondi del Pnrr. Intanto in molti vengono a camminare nel parco dove si può osservare ancora l’alternanza delle stagioni. Perché qui le abitazioni sono costruite per adattarsi alla morfologia dell’ambiente circostante e non viceversa. E sia i materiali, sia la collocazione è studiata per massimizzarne i vantaggi ambientali e minimizzarne i disagi, anche quando si parla di calore.
Un esempio che potrà tornare molto utile anche un domani, dati gli scenari ipotizzati. Perché, mai come oggi, il futuro sembra sempre più vicino.