Assedio di Sarajevo: cecchini e un’inchiesta italiana sui “Sarajevo Safari”
Milano, 24 novembre 2025 – A Sarajevo sotto assedio i cecchini serbi sparavano vigliaccamente dalle alture ai civili asserragliati in città. Le donne e i bambini erano considerati bersagli privilegiati. Ma ad aggiungere orrore a orrore la Procura di Milano sospetta, al punto da avere aperto un’inchiesta, che tra gli snipers vi fossero anche italiani che, nascosti sulle montagne, andavano per uccidere, per “divertimento”, i poveri disperati, in quelli che sono stati chiamati “Sarajevo Safari”. In quegli anni terribili di pulizia etnica nel cuore dell’Europa, Michael Giffoni era un giovane diplomatico, numero due della delegazione italiana nella capitale della Bosnia-Erzegovina. Ebbene, non solo visse sulla sua pelle il tiro dei criminali (“La mia Fiat panda giardiniera era piena di buchi”), ma fu testimone diretto delle notizie che giravano sul turismo della crudeltà: “È una vicenda che mi turbò molto”, riporta Attuale.
Che cosa ricorda di quell’orrore?
“Sarajevo fu sotto assedio per quasi 4 anni, dall’aprile 1992 al marzo 1996. Io sono intervenuto per riferire quello che so e che ricordo bene, avendo vissuto e operato a Sarajevo nell’ultimo anno dell’assedio e nei 4 anni successivi, fino al dicembre ’99, con vari incarichi nazionali e internazionali. Ritengo opportuno, però, tentare di chiarire meglio il contesto storico, drammatico e unico, nel quale questi fatti si svolsero”.
Quale era il contesto?
“Bisogna partire da una data: il 6 aprile 1992. Quel giorno la Bosnia-Erzegovina veniva riconosciuta come Stato indipendente da quasi tutti i Paesi dell’Onu, legittimando a livello internazionale la validità del referendum sul distacco da quel poco che restava della Jugoslavia, svoltosi un mese prima e boicottato dalla componente serbo-bosniaca (pari a circa il 30%) della popolazione. Nasceva quella che sarebbe diventata la più complessa e travagliata delle sei repubbliche indipendenti post-jugoslave (alle quali si aggiunse una settima dopo una nuova guerra e immani sofferenze per i civili, il Kosovo)”.
Quando cominciò l’assedio?
“Quel 6 aprile 1992 era un lunedì e viene ricordato anche come la data d’inizio della guerra in Bosnia, per una serie di episodi che avvennero a Sarajevo, nello spazio di un paio di chilometri quadrati tra il palazzo del Parlamento, il “cubone giallo” dell’hotel Holiday Inn, il ponte di Vrbanja e le pendici della collina di Grbavica dove si erano già posizionati i famigerati cecchini che saranno l’incubo dei sarajevesi nei 1425 giorni successivi, quanto sarebbe durato l’assedio più lungo del secolo”.
Comparvero subito i cecchini.
“Se quello che resta sono le immagini simboliche o iconiche, quella delle vittime innocenti della guerra bosniaca avrà il volto radioso di Suada Dilberovic, ventiquattrenne studentessa dalmata che il 5 aprile, nel “bloody Sunday” sarajevese, venne freddata da un cecchino mentre tentava di attraversare il ponte di Vrbanja con un gruppo di manifestanti per la pace: è lei la prima vittima accertata dei cecchini, noti come “snajper”. Ben presto, le mura lungo le strade più esposte (tra le quali il viale centrale, ribattezzato Sniper Allee, viale dei cecchini) erano piene di scritte con vernice rossa che per noi che vivevamo lì resteranno incancellabili nella mente: “Pazi Snajper” (Attenti ai cecchini)”.
Quando seppe dei “Sarajevo Safari”?
“Le voci sulla presenza di civili stranieri tra i cecchini serbi appostati cominciarono a diffondersi da subito e divennero a mano a mano sempre più ricorrenti, ma si parlava all’inizio soprattutto di russi (storicamente vicini ai serbi), ai quali si sarebbero occasionalmente aggiunti gruppi di “cacciatori” europei occidentali (si menzionavano austriaci, svizzeri, tedeschi, francesi e, da un certo punto in poi, anche italiani)”.
Quale conferma ebbe sui cecchini italiani?
“Queste voci le raccoglievamo anche alla Delegazione diplomatica speciale italiana ma l’unica segnalazione più attendibile giunse ai nostri agenti del Sismi da parte di un funzionario dei servizi di sicurezza bosniaca: Edin Subasi”.
Che cosa rivelò ai nostri 007?
“Riferì ai nostri agenti che nel corso di un interrogatorio di un prigioniero serbo, questi aveva raccontato di essere arrivato accompagnando un gruppo di stranieri per i “Sarajevo Safari” di varie nazionalità, tra i quali alcuni italiani. Non furono forniti nomi o ulteriori elementi ma solo dettagli sulla “tratta” che era stata effettuata, partendo da Trieste. La notizia sui cecchini italiani ci venne confermata anche dal capo di Subasi, Mustafa Hajrulahovi, detto “Talijan”, l’italiano”.
Come fu gestita l’informazione sulla presenza di cecchini italiani?
“Questa segnalazione fu trasmessa ai comandi dei Servizi segreti a Roma che dopo qualche mese chiesero ai nostri agenti di riferire alle controparti bosniache che la segnalazione era stata investigata e il “traffico era stato bloccato” senza elementi ulteriori. Ribadisco che a Sarajevo è stato tutto fatto quello che si poteva e doveva fare, nelle condizioni in cui operavamo (eravamo anche noi sotto assedio e non avevamo ovviamente alcun contatto con “quelli dell’altra parte”, anzi, eravamo anche noi sotto il loro tiro)”.
Come visse la notizia che sulle colline intorno a Sarajevo potessero esserci italiani che uccidevano “per divertimento” nel fine settimana?
“La cosa ci turbò molto allora perché noi eravamo testimoni dell’enorme slancio di solidarietà della società civile italiana nei confronti della popolazione civile bosniaca così sofferente, come dimostrato dalle centinaia di convogli umanitari per la distribuzione di aiuti e dalle migliaia di volontari e cooperanti che giungevano in Bosnia e anche Sarajevo: il senso di gratitudine della popolazione bosniaca nei confronti di quella italiana era enorme e ci dispiaceva che ci fossero ombre”.