“Parthenope” sta dominando il botteghino italiano, in virtù del richiamo esercitato da lui, Paolo Sorrentino, da questa storia su Napoli e per Napoli. Contemporaneamente, “Anora” di Sean Baker e “The Substance” di Coralie Fargeat stanno facendo discutere, anche loro portando in dote della storie al femminile diverse dalla norma, atipiche, potenti e moderne. Proprio la modernità è forse il tallone d’Achille del film del regista partenopeo, esemplificazione di una visione che risente di una staticità e di un eccesso di conservazione su cui vale la pena riflettere.
Tre film, tre registi, tre diverse visioni della donna nel mondo
“Parthenope” di Paolo Sorrentino, “Anora” di Sean Baker e “The Substance” di Coralie Fargeat sono i titoli del momento. Tre film molto diversi per genere, stile, obiettivi, e soprattutto per la rappresentazione dell’universo femminile, con il secondo e il terzo che sono stati i grandi protagonisti del Festival di Cannes e quasi sicuramente si contenderanno Oscar e Golden Globes. “Parthenope” invece è stato bene accolto dal pubblico della critica italiani, quanto ridimensionato all’estero.
Paolo Sorrentino ha fatto di Celeste Dalla Porta il volto di un’operazione cinematografica complessa, sicuramente ambiziosa, dove la vita di una ragazza bellissima e misteriosa diventa la metafora con cui parlarci di Napoli stessa, della giovinezza e della passione. Parthenope è un personaggio sicuramente interessante per sensualità, simbologia e caratterizzazione, la sua essenza metaforica e quindi distante dal reale è la sua ragione d’essere, ma si rimane comunque nel campo di una rappresentazione al femminile, volenti o nolenti. E a fare un confronto con gli altri due film qui citati, ci si accorge che bene o male Paolo Sorrentino ci offre, ancora una volta, una visione della donna forse fuori tempo massimo, incapace di farsi specchio reale del presente, di un’epoca, ma più ancora di una complessità che vada oltre il gioco di prestigio, la fascinazione, il simbolismo astratto.
Parthenope è sfuggente, libera, anticonformista? Parliamone. Perché la visione della donna che Sorrentino abbraccia, rispetto al film di Sean Baker e a quello della Fargeat, risulta inevitabilmente fin troppo idealizzata, a volte arretrata e in certi momenti paternalistica. A mano a mano che si va avanti, Parthenope si dimostra statica, lontana dalla realtà di quella stessa Napoli di cui vuole essere monumento palpitante, scevra dai suoi drammi, dalle problematiche reali della vita vera. In lei si agita una certa inconsistenza, una romanticizzazione ripetitiva che non è nuova nella cinematografia del regista italiano più importante del nostro tempo. Paolo Sorrentino ad oggi ha sempre offerto nel suo cinema, una rappresentazione della donna bifronte: o creatura sensaule, passionale, oppure essere caricaturale e grottesco.
Ma in entambi i casi, è il punto di vista maschile che trionfa, esse si muovono in funzione di esso senza che vi sia possibilità di scampo. La stessa Celeste Dalla Porta, così come le altre donne di “Parthenope”, è un “diva” da adorare, un qualcosa che Sorrentino anche in altri film ha abbracciato. L’unica eccezione? La madre interpretata da Teresa Saponangelo in “È stata la mano di Dio”, il che già basta e avanza per sottolineare la prevedibilità e il conservatorismo intimi nella sua visione.
L’inevitabile idealizzazione della donna come mero simbolo carnale
“Anora” di Sean Baker ha come protagonista una sex worker, che cerca di riscattare la propria esistenza grazie all’incontro con un giovane e incasinato rampollo di una famiglia di oligarchi russi. Mikey Madison è assolutamente eccezionale nel donarci una vita vera, reale, sporca e sudicia, in un racconto dove manca ogni possibile santificazione o manicheismo. Anora è una ragazza che vive in un ambiente squallido, e di quell’ambiente è un perfetto prodotto. Non è assolutamente innamorata di quel ragazzo, per lei rappresenta semplicemente la possibilità di un jackpot, di un assegno da incassare che la porti via da lì. Un personaggio che si muove quindi in perfetta controtendenza alla perfezione morale che ha dominato in questi anni la rappresentazione della donna il grande e piccolo schermo.
Ma è un personaggio eccezionale proprio perché credibilissimo nel suo squallore, nei compromessi che in quanto donna è costretta ad accettare. Il sesso e il suo corpo sono le uniche carte che pensa di avere. “The Substance” di Coralie Fargeat è invece è una body horror commedy con al centro Demi Moore, qui vecchia gloria televisiva, che sente di non aver più alcun valore in quanto privata di bellezza e giovinezza. Armi che la “clone” che creerà, interpretata da Margaret Qualley, impugna con superficialità, egoismo, ad uso e consumo del maschio medio.
In questo contrasto, sta il successo di due chiavi di lettura innovative e spietate sull’essere donne nella società moderna, e quanto le donne stesse siano le prime a oggettificarsi quando devono o quando possono. Per Baker e Fargeat l’essere donne è slegato da una sorta di beatificazione, idealizzazione e di quella supposta perfezione che Paolo Sorrentino con “Parthenope” ci offre così dittatorialmente, tanto da rendere la sua protagonista, a mano a mano che si va avanti, oggettivamente insopportabile. Sì perché Parthenope sarà anche la personificazione di Napoli, ma è anche una ragazza viziata, narcisista, superficiale, snob, non ha nessun particolare talento, nessuna particolare sensibilità, solo la bellezza e tante frasi fatte, ed una sapiosessualità più di maniera che di realtà.
Sbucata da una famiglia incasinata e ricchissima, verrà scelta non si capisce in base a quale criterio dal Professor Marotta (Silvio Orlando) come erede. Ma al contario delle protagoniste di “Anora” e “The Substance” essa ci appare senza una crepa, senza alcuna reale capacità di mettersi minimamente in discussione. Si può sicuramente discutere su quanto sia voluta questa caratteristica, ricordarsi dell’intento metaforico voluto da Sorrentino, qui come altrove; ma ciò non rende l’altro piano, quella narrativo puro, meno statico, meno antiquato e alla lunga inquietante nella limitatezza di rappresentazione che ci offre.