Fino a oggi la Repubblica islamica ha cercato di tenersi alla larga da uno scontro diretto con Israele. Aleggia il timore dell’uso della bomba atomica. Dopo che l’amministrazione Trump si è ritirata unilateralmente dall’accordo nel 2018, l’Iran ha ripreso a produrre uranio arricchito da utilizzare per la costruzione di diverse bombe nucleari
Uno dopo l’altro cadono come pedine di una scacchiera. Il movimento sciita libanese Hezbollah, nell’arco di pochi mesi, ha visto l’uccisione per mano di Israele del suo leader Hassan Nasrallah dopo 32 anni di indiscusso controllo e di Fuad Shukr, uno dei comandanti più influenti del gruppo. Con la decapitazione della sua catena di comando e i sistemi di comunicazione paralizzati, il Partito Dio è in difficoltà. Ma anche altri gruppi sostenuti dall’Iran lo sono. I bombardamenti israeliani hanno ucciso in pochi giorni il generale di brigata della Guardia rivoluzionaria iraniana, Abbas Nilforushan e il capo di Hamas in Libano Fatah Sherif al-Amin.
Uccisioni che preoccupano la guida della Repubblica islamica iraniana. Quello che accade in queste ore in Iran, sponsor militare del Partito di Dio libanese e di altri gruppi nella regione, è avvolto nel mistero. Finora si sa che Ali Khamenei, la Guida Suprema degli ayatollah, è stato trasferito d’urgenza in una località segreta, protetta da misure di sicurezza rafforzate. Segnale, questo, di un nervosismo dovuto al fatto che Israele ha decapitato la leadership degli alleati dell’Iran in pochi giorni.
Come comportarsi con Israele: l’Iran al bivio
Teheran ora si trova davanti a un bivio: attaccare Israele, che ha avviato una guerra (totale o meno) contro l’intero “Asse della Resistenza”, ossia l’insieme dei gruppi di miliziani alleati e sostenuti dall’Iran in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Yemen (come dimostrano i bombardamenti sul porto yemenita di Hodeida), oppure optare per una de-escalation.
È questo il clima, riporta il New York Times, che si respira a Teheran, stretta tra le pressioni degli intransigenti e le proposte dei riformisti. Perché se questi ultimi, rappresentati dal neo presidente Masoud Pezeshkian, promuovono l’idea di una diminuzione della tensione per evitare che l’Iran possa sprofondare nel baratro della crisi economica e politica, gli ultraconservatori, guidati dall’ex candidato alla presidenza Saeed Jalil, spingono invece per una dura risposta per colpire il “nemico sionista”.
L’Iran deve ancora reagire all’umiliante assassinio a luglio del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh e in più ora deve capire come rispondere all’uccisione di Nasrallah. Fino a oggi la Repubblica islamica ha cercato di tenersi alla larga da uno scontro diretto con Israele, che ha una chiara supremazia tecnologica oltre che capacità nucleare. Anche Teheran però è “equipaggiata”. Dopo che l’amministrazione Trump si è ritirata unilateralmente dall’accordo nel 2018, l’Iran ha ripreso a produrre uranio arricchito da utilizzare per la costruzione di diverse bombe nucleari. Ne sono convinti i funzionari dell’intelligence statunitense: il paese degli ayatollah possiede già una scorta di circa 136 chilogrammi di uranio altamente arricchito che potrebbe essere ulteriormente raffinato in combustibile per bombe nucleari nel giro di settimane o forse giorni. Ma questi sarebbero giorni di alta tensione e paura per la Guida Suprema degli ayatollah che, come detto, è ora al riparo in un rifugio segreto.
Al momento, l’Iran potrebbe limitarsi a chiedere ad Hezbollah, Houthi nello Yemen e ai numerosi gruppi in Siria e Iraq di intensificare i loro attacchi sia contro Israele, puntando sulla loro vicinanza geografica con lo Stato ebraico. Nel mirino dei gruppi sponsorizzati dall’Iran potrebbero finire anche le basi diplomatiche e militari negli Stati Uniti, che Teheran ritiene “complici dei crimini di guerra degli israeliani”.
Hezbollah ha già giurato di continuare la lotta, promettendo di rispondere all’esercito di Israele se quest’ultimo condurrà un’incursione terrestre, come ha promesso Naim Qassem, vice segretario generale di Hezbollah, in un discorso pubblico, il primo dall’uccisione di Nasrallah. Il movimento sciita libanese, dopo la morte del suo leader, è certamente indebolito ma non dissolto. Il Partito di Dio dispone di circa 150mila razzi e missili, tra cui l’iraniano Fateh-110 e lo Zelzal-2, in grado di colpire in profondità nel territorio israeliano con elevata precisione. E ha ancora migliaia di combattenti, molti dei quali sono veterani della guerra in Siria, che chiedono vendetta.
Ma quale sarebbe il costo? La decapitazione della leadership del movimento sciita libanese ha dimostrato il successo e la potenza dell’Intelligence israeliana, che ha raccolto informazioni accurate e preziose su Hezbollah negli ultimi anni. Una dura risposta del Partito di Dio spingerebbe Israele ad alzare la posta, che sarebbe probabilmente devastante e porterebbe a una lunga presenza delle sue forze armate in Libano. E il premier israeliano Benjamin Netanyahu difficilmente farebbe un passo indietro, forte dell’aumento del consenso popolare ottenuto nuovamente dopo l’uccisione di Nasrallah.
Per il momento, come indicato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, la Repubblica islamica non ha intenzione di inviare le proprie truppe in Libano o a Gaza per affrontare Israele, dal momento che le fazioni sostenute dall’Iran “hanno la capacità e la forza per difendersi dall’aggressione”. La sensazione, però, è che Teheran non voglia mettere a rischio la vita della Guida Suprema Ali Khamenei e la sopravvivenza di un paese che già internamente vive molte difficoltà, solo per sostenere i suoi alleati nella regione.