È morto Nino Benvenuti, leggenda istriana della boxe

21.05.2025 14:02
È morto Nino Benvenuti, leggenda istriana della boxe
È morto Nino Benvenuti, leggenda istriana della boxe
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E’ morto Nino Benvenuti. Lo apprende l’Adnkronos da fonti sportive.La leggenda del pugilato italiano aveva 87 anni. Benvenuti fu medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma 1960 nella categoria dei pesi welter. Da professionista, fu campione del mondo dei superwelter tra il 1965 e il 1966 e campione del mondo dei pesi medi tra il 1967 e il 1970.

Il pugile dell’esodo istriano: «Ci chiamavano esuli, ma noi eravamo italiani» 

Ci sono storie che non possono essere dimenticate. Storie che, al pari dei pugni sul ring, lasciano il segno. Quella di Nino Benvenuti, medaglia d’oro olimpica nel 1960, campione mondiale dei pesi medi e superwelter, è una di queste. Non solo perché è la parabola di un pugile leggendario, ma perché è anche la voce di un popolo: gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, strappati dalle loro terre, ignorati per decenni, perseguitati prima dai carnefici della Storia e poi dalla dimenticanza. “Ci chiamavano esuli, ma noi eravamo solo italiani”, diceva Benvenuti. E quella parola, “esuli”, per lui, e non solo per il campionissimo della boxe tricolore, suonava come una ferita ancora aperta.

Nato il 26 aprile 1938 a Isola d’Istria, oggi territorio sloveno, Nino cresce in una famiglia numerosa, benestante, immersa in un mondo fatto di pescherie, dialetti, giochi di strada e mare. Un microcosmo sereno che viene spazzato via nel dopoguerra, quando il Maresciallo Tito avvia l’epurazione degli italiani dall’Istria. Un processo fatto di espropri, minacce, sparizioni, e spesso, di morte.

“La polizia politica jugoslava venne a casa nostra. Arrestarono mio fratello Eliano, che aveva la poliomielite. Non seppero dirci perché. Tornò mesi dopo, con i capelli ingrigiti. Non fu mai più lo stesso”, ricordava Nino Benvenuti. La madre, devastata dalla paura, morirà poco dopo di crepacuore. La famiglia fugge a Trieste, lasciandosi alle spalle tutto: casa, terra, lingua. E radici. Nino trova nella boxe non solo un talento naturale, ma una via di fuga, un modo per dare un senso alla sofferenza. Pedalava 60 km per allenarsi a Trieste, tra fame e fatica. La disciplina del ring diventa la sua ancora di salvezza, il suo modo per riscattare non solo se stesso, ma un’intera comunità derubata della propria identità.

Nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, conquista l’oro nei pesi welter. Il pubblico esulta. Il padre lo abbraccia. Qualcuno tra la folla sventola la bandiera istriana. “Quella medaglia – dirà poi il campione olimpico – non cancellava il passato, ma gli dava un senso”. Era la rivincita di un ragazzo che aveva visto la guerra in casa, la prigionia del fratello, la morte della madre, l’umiliazione dell’esilio. Ed era, soprattutto, la rivincita di un popolo intero.

Benvenuti non ha mai dimenticato. Ha scritto la sua storia insieme a Mauro Grimaldi in “L’isola che non c’è” (Eraclea, 2013) e l’ha raccontata anche attraverso le pagine del fumetto “Nino Benvenuti, il mio esodo dall’Istria”, illustrato da Giuseppe Botte e pubblicato da Ferrogallico nel 2019. Tavole evocative, che ripercorrono il dolore e la gloria, la fuga e la medaglia, l’amore per un paese che non c’è più. Quel che emerge è chiaro: la boxe è stata la sua seconda patria. Ma la ferita dell’Istria non si è mai rimarginata. “Come alberi, ci hanno strappato le radici. A noi italiani d’Istria è stata negata la memoria, la dignità, persino l’esistenza. Per troppo tempo il nostro dramma è stato taciuto”, confessava amaramente il pugile entrato nel mito.

Benvenuti non ha mai cercato “vendetta”. Ma memoria. “Tutte le guerre sono terribili, ma l’odio che generano è il male peggiore”, ha scritto nel suo libro autobiografico. E lo diceva con l’autorevolezza di chi ha conosciuto davvero l’odio, ma ha scelto la via del riscatto, del racconto, della condivisione. Nel Giorno del Ricordo, stabilito per legge ogni anno il 10 febbraio per ricordare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata, la sua voce è stata più forte che mai. “Papà, ce l’ho fatta”, disse salendo sul podio olimpico. Da allora, per Nino, quel “ce l’ho fatta” valeva anche per chi non ce l’aveva fatta. Per chi era scomparso nelle foibe. Per chi aveva vissuto in un campo profughi. Per chi aveva dovuto nascondere il proprio dialetto e la propria storia per non essere considerato un “nemico”. La storia di Nino Benvenuti è anche la storia di un “popolo dimenticato”. Ma anche la prova che si può resistere, rialzarsi, e vincere. Nonostante tutto.

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