Gli aiuti bloccati e il ruolo della Corte suprema: via libera a Tel Aviv

14.05.2025
Gli aiuti bloccati e il ruolo della Corte suprema: via libera a Tel Aviv
Gli aiuti bloccati e il ruolo della Corte suprema: via libera a Tel Aviv

Aprire i valichi e garantire l’accesso dei rifornimenti a Gaza contro una politica criminale è quello che l’associazione israeliana per i diritti umani Gisha, insieme ad altre ong, chiede in una lettera aperta al primo ministro, al ministro della difesa e al Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories), l’istituzione che si occupa di coordinare l’ingresso di persone e merci a Gaza dal 1967. La lettera è solo l’ultimo tentativo di una serie di petizioni e richieste di trasparenza inviate al governo israeliano dal 7 ottobre.

Dal 2007 uscire dalla Striscia di Gaza per motivi di studio, lavoro, salute è quasi impossibile. I permessi sono rilasciati dal governo israeliano in modo del tutto arbitrario. Se Gaza è, da molto prima di questa guerra, la più grande prigione del mondo, gli avvocati e attivisti di Gisha sono stati l’ora d’aria.

«GISHA LAVORA dal 2005 per proteggere i diritti dei palestinesi a Gaza, con particolare attenzione alla libertà di movimento» raccontano dall’associazione. «Ma dopo gli eventi del 7 ottobre e l’assedio che ne è seguito, Gisha si è adattata per far fronte alla portata della crisi occupandosi di evacuazioni mediche e non, dell’assistenza alle famiglie nella ricerca di persone detenute o disperse che si ritiene siano sotto la custodia israeliana, dell’opposizione alle condizioni di detenzione disumane e della pubblicazione di analisi tempestive sul collasso umanitario nella Striscia».

La questione delle evacuazioni è particolarmente urgente: secondo l’associazione Physicians for Human Rights Israel (Phri), da ottobre 2023 sono state presentate 15.600 richieste di evacuazione medica, ma solo il 34% è stato approvato mentre, per quel che riguarda i bambini, le approvazioni riguardano solo il 51,7% per le età 0-5 anni e il 37% per le età 6-18 anni. Tra i pazienti oncologici, il 50% delle richieste di evacuazione è stato respinto.

Il 18 marzo dello scorso anno, Gisha insieme a Phri e ad altre tre associazioni aveva presentato una petizione alla Corte suprema israeliana per obbligare il governo a dare spiegazioni sul perché non consenta la fornitura «gratuita, rapida e senza ostacoli» di aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, in particolare a Nord, e perché non adempia ai propri obblighi di fornire aiuti umanitari essenziali in quanto potenza occupante.

Su Israele ricade un doppio obbligo, secondo i ricorrenti: quello di consentire il passaggio di tutti gli aiuti umanitari secondo il diritto sui conflitti armati e quello di fornirli direttamente in quanto stato occupante secondo lo stesso diritto costituzionale e amministrativo israeliano oltre che secondo la Convenzione di Ginevra. «Non potevamo ignorare il grido di aiuto delle ong e della popolazione. Le segnalazioni di famiglie costrette a mangiare mangime per animali e a bere acqua contaminata ci hanno portato a questo».

Nonostante il carattere urgente, la petizione è stata rigettata dalla Corte il 27 marzo scorso, pochi giorni dopo la chiusura di tutti i valichi di ingresso a Gaza e la fine del cessate il fuoco temporaneo, con cavilli giuridici e un’evidente alterazione della realtà.

Lo Stato di Israele, da parte sua, ha affermato che le gravi sofferenze subìte dalla popolazione di Gaza erano da attribuirsi al comportamento di Hamas, che «impediva la distribuzione degli aiuti, sequestrava beni, si nascondeva tra i civili e utilizzava la popolazione come scudo umano», si legge nella sentenza. Senza mai portare prove a supporto di queste affermazioni.

«IL PRESIDENTE della Corte suprema Yitzhak Amit ha ritenuto che Israele sia vincolato solo dal diritto dei conflitti armati, e non dal diritto dell’occupazione, in base al fatto che non ha “controllo effettivo” su Gaza. Pertanto deve consentire e facilitare il passaggio degli aiuti, ma non è tenuto a fornirli: una visione critica e, a nostro avviso, distorta delle sue responsabilità giuridiche», affermano gli avvocati di Gisha. Nelle parole del giudice, vi sono tre criteri per determinare se un’area sia considerata occupata ai sensi della legge israeliana sui conflitti armati: presenza fisica dell’esercito, capacità di esercitare l’autorità governativa e vuoto di potere del governo precedentemente in carica.

Secondo la Corte, Israele non occuperebbe l’intero territorio di Gaza mentre la capacità di esercitare azione governativa non è completamente soddisfatta, a detta dello Stato, dalle “brevi” incursioni dell’esercito volte a «garantire la pubblica sicurezza». Inoltre, la Corte ritiene intatta l’autorità di Hamas nella Striscia. Rispetto al diritto internazionale e senza alcuna prova presentata, i giudici hanno stabilito che Israele fa «enormi sforzi» per consentire il passaggio degli aiuti.

«La Corte ha ampiamente adottato la versione dello Stato, respingendo senza spiegazioni le numerose prove del controllo di Israele sullo spazio aereo, sui confini e sulle infrastrutture essenziali di Gaza, nonché la sua autorità di fatto sull’accesso umanitario e ignorando il blocco totale degli aiuti in vigore dal 2 marzo, allarmante violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni della Corte internazionale di Giustizia», è il commento attonito degli avvocati di Gisha.

Proprio alla corte internazionale di Giustizia nei giorni scorsi è iniziata una settimana di udienze a proposito delle accuse riguardanti le privazioni di aiuti umanitari, su richiesta delle Nazioni unite che raccolgono l’allarme del Programma Alimentare mondiale secondo cui le scorte di cibo a Gaza sono finite. Intanto Medici Senza Frontiere avverte che sono passati 100 giorni dal blocco degli aiuti e che «la popolazione non può aspettare oltre».

Secondo lo scenario prospettato dai ricorrenti di Gisha, «per non essere considerata potenza occupante e per sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti del diritto internazionale, Israele può arrivare a sradicare la popolazione locale e concentrarla in campi privi di infrastrutture adeguate o di aiuti umanitari sufficienti, o ancora, dove non è presente l’esercito». Lo sfollamento di massa di civili da una parte all’altra della Striscia, tra le ultime decisioni del governo Netanyahu, può diventare, in pratica, un mezzo per eludere le responsabilità.

Già da qualche mese diverse ong avevano lanciato l’allarme sul piano dell’esercito israeliano di rimanere a Gaza con un controllo più stringente dopo un’eventuale fine del conflitto: si tratterebbe di «hub logistici rigorosamente gestiti» dall’esrercito che renderanno ancora più limitante l’arrivo dei rifornimenti umanitari «e che rischiano di diventare zone di contenimento dove la supervisione umanitaria viene sostituita dal controllo militare e il timore di un uso eccessivo della forza, della violazione dei diritti umani fondamentali dei civili e del disprezzo per la loro vita non fa che aumentare».

IN ISRAELE si svolgono costantemente manifestazioni per il rilascio degli ostaggi e contro il governo di Netanyahu. La reazione indignata della società civile, secondo la ong israeliana è, spesso, opportunistica: «Molti di coloro che manifestano contro il proseguimento della guerra e il blocco degli aiuti lo fanno principalmente per la giustificata preoccupazione per gli ostaggi, ma non accompagnano a questa preoccupazione l’attenzione per la vita o le sofferenze dei civili a Gaza».

La realtà, raccontano, è che «tra l’opinione pubblica israeliana più ampia, profondamente scossa dalle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre, la sentenza della Corte è percepita come un’ulteriore conferma che Israele sta agendo in modo morale, persino generoso, a Gaza».

La sentenza non ha affatto messo in discussione, infine, il ruolo del Cogat, braccio armato della fame e del genocidio, «direttamente coinvolto nell’attuazione di politiche che limitano la circolazione di persone e merci da e verso Gaza, ma anche di ritardi burocratici. Abbiamo dimostrato attraverso numerosi esempi, corroborati da organizzazioni internazionali, come il Cogat abbia omesso di approvare o abbia notevolmente ritardato le consegne di aiuti medici e umanitari. Restrizioni non solo logistiche, ma anche strategiche, che riflettono obiettivi militari e politici più ampi».

I medici internazionali hanno più volte lamentato l’assenza di ventilatori polmonari, bombole di ossigeno, attrezzature per le radiografie, considerati dalle ispezioni di Israele materiale “a duplice uso”, civile e militare. Sull’attuale responsabile del Cogat, il generale Ghassan Alian, pende una richiesta di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Fondazione Hind Rajab alla Corte penale internazionale, richiesta mai rispettata nemmeno dall’Italia. Il generale è stato in visita ufficiale nel nostro paese a gennaio di quest’anno.

«Ignorando totalmente il collasso del sistema sanitario a Gaza, l’uso della fame e delle privazioni come strumenti di guerra, rifiutandosi di portare prove fattuali, i giudici della Corte israeliana hanno presentato un manifesto politico patriottico più che una sentenza». Un manifesto politico di sterminio.

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