Gli Stati uniti si giocano il loro futuro rincorrendo la Cina a sud del Rio Bravo

23.05.2025 15:30
Gli Stati uniti si giocano il loro futuro rincorrendo la Cina a sud del Rio Bravo
Gli Stati uniti si giocano il loro futuro rincorrendo la Cina a sud del Rio Bravo

Perché l’«America sia di nuovo grande» Donald Trump deve portare a termine la “riconquista” dell’America latina. Quel “patio di casa” voluto dal presidente Monroe (inizio 1823) e che quel «mollaccione» (e forse peggio, secondo il tycoon-presidente degli Usa) di Biden si è di fatto lasciato soffiare dalla Cina.

Il programma della seconda amministrazione Trump è chiaro. E con esso l’inizio di un conflitto con la Cina giocato a sud del Rio Grande, dal cui esito può dipendere buona parte del futuro degli States (venerdì 16 Moody’s ha tolto la AAA agli Usa).

LE RAGIONI SONO SEMPLICI se ci si affida ai numeri: il 42-45% dell’acqua dolce è nell’America del Sud (la cui popolazione è circa il 7% di quella mondiale), come pure circa la metà della biodiversità del pianeta. Petrolio e gas abbondano; le riserve di litio sono il 48% di quelle mondiali. Poco inferiori le riserve di rame – 36,5% – e di argento – 34,5%.

Mentre le terre rare contano per il 16,7% delle riserve mondiali .

Queste cifre le aveva snocciolate un paio di anni fa la generale ex comandante del SudCom, Laura Richardson. E aveva messo in chiaro che si trattava di «beni strategici per gli Usa». Così senza mezzi termini! Solo che il presidente Joe Biden era impegnato – pensa Trump – nella disgraziata guerra in Ucraina per suonargliele a Vladimir Putin. Mentre aveva ragione la generale: il conflitto vero era con la Cina in America latina.

Ma ora Trump è più che deciso a rimettere le cose a posto.

Come? Innanzi tutto la “riconquista” del subcontinente esige la continuazione del regno del dollaro. La peggiore minaccia per il tycoon e i suoi falchi è la dedollarizzazione. Che i Brics+ per ora auspicano ( e in parte praticano) in forma molto cauta.

Però la riguardano come misura strategica (sempre con lo zampino della Cina).

PER QUESTA RAGIONE Trump e il suo “agente in loco”, Marco Rubio, esigono dai paesi latinoamericani (in primis il Messico) il rifiuto netto di questa prospettiva (sostituzione del dollaro con un paniere di monete, anche locali) e si preoccupano soprattutto dei “velleitarismi” del brasiliano Lula, che è anche presidente di turno dei Brics+. Mentre il Messico, già con l’ex presidente López Obrador aveva considerato «non conveniente» la mossa; sulla stessa linea l’attuale presidente Laura Sheinbaum, viste le minacce di salati dazi agitate da Trump).

La principale pretesa della Casa bianca è proprio quella a suo tempo esposta dalla Richardson: l’esclusiva sui beni naturali dell’America latina. La vicinanza di tali assets poi «aumenta la volontà predatrice dell’imperialismo degli Usa», che infatti «rivendicano tali beni, in cambio di praticamente nulla» (Claudio Katz, América Latina en la encrucijada global, La Habana 2024).

Per questo scopo Trump agita l’imposizione di dazi come strumento di pressione. Secondo la – palesemente falsa (Galeano: Le vene aperte dell’America Latina) – asserzione che il subcontinente latinoamericano si approfitta degli Usa. A differenza della Cina di Xi Jinping che offre crediti a lungo termine, infrastrutture energetiche, porti marittimi.

È chiaro che sempre si tratta di affari e che la Cina non regala nulla. Ma lo stile politico è diverso, Trump cerca di «forzare la lealtà imponendo trattative senza regole» (Claudio Katz), Xi almeno all’apparenza, è inclusivo.

Il primo successo è stato messo a segno da Trump. Con le minacce di dazi e di intervento dei marines ha convinto il presidente di Panama Raúl Mulino (che aveva ripetuto a iosa il refrain della «sovranità dell’istmo») a calare le braghe. E a firmare con gli Usa il Memorandum di Intesa sulla sicurezza che ripristina le tre basi che gli Stati Uniti avevano (fino al 2000) all’applicazione del trattato Carter-Torrijos (che sancisce il passaggio del canale sotto il controllo di Panama) e in violazione all’articolo 5 della Costituzione panamense che recita appunto: «Solo la repubblica di Panama gestisce il Canale e manterrà forze militari, siti di difesa e istallazioni militari nel suo territorio nazionale».

MURILLO HA INOLTRE DECISO l’uscita di Panama dalla nuova Via della Seta e ha espulso la società cinese Hutchinson Holdings Ltd dal controllo di due porti del canale, Balboa (Pacifico) e Colón (Golfo Messico), affidandoli a un consorzio di imprese guidate dal fondo Usa, Black Rock Inc.

Sconfitta netta della Cina. Che però si è rifatta nell’annuale vertice con la Comunità degli stati latinoamericani e del Caribe (Celac, 33 paesi) – una decina di giorni fa – nel quale sono stati firmati molte decine di accordi, un “Piano d’azione congiunto” per una cooperazione triennale (2025-27, su tecnologie e fonti energetiche, infrastrutture e commerci) con una linea di credito per quasi 10 miliardi di dollari. Xi Jiping ha ricevuto calorose testimonianze dal presidente Lula, dal cileno Gabriel Boric e soprattutto dal colombiano Gustavo Petro. Il quale ha deciso l’adesione della Colombia ( il paese più controllato dagli Usa con almeno 6 basi militari e legami commerciali) alla Via della Seta.

NON SOLO, con l’inaugurazione (novembre dell’anno scorso) del megaporto hub di Chancay (in Perù, a Nord di Lima) la Cina – che l’ha finanziato con 3,5 miliardi di dollari – progetta una linea diretta marittima con Shanghai per poi connettersi al progetto di “Corredor bioceánico” – per il trasporto via ferrovia di merci dal Pacifico all’Atlantico – voluto da Lula, al quale partecipano Cile, Paraguay e al quale vuole associarsi la Colombia.

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