La chiusura del gruppo Facebook “Mia Moglie” — dove oltre 32 mila iscritti pubblicavano foto senza consenso delle proprie partner — accende l’attenzione, una volta in più, sulla necessità di tutela dell’immagine femminile online e su quello che si configura come un atto di violenza. Pubblicare e contribuire a diffondere sono atti di violenza e possono essere puniti con severità: è la legge a dirlo. Ma ciò che deve cambiare è la consapevolezza che davvero di violenza si tratti perché spesso pubblicare fotografie online, soprattutto quando si tratta di donne e bambini, avviene con troppa leggerezza, senza rendersi davvero conto dei rischi di ciò che accade quando diamo in pasto alla rete le nostre immagini. Intanto ecco come possiamo difenderci e che cosa fare in caso di immagini diffuse senza consenso, riporta Attuale.
Che cosa ci insegna la chiusura del gruppo “Mia moglie”
Il gruppo “Mia Moglie”, chiuso negli ultimi giorni, era online dal 2019. Se la chiusura è stata possibile è anche grazie alle centinaia di segnalazioni alle autorità competenti e alla Polizia Postale. Purtroppo, è un fatto che esistano o possano nascere altri gruppi simili, tuttavia il caso indica una strada importante da seguire.
Se navigando ci accorgiamo di un gruppo (o di profili) sospetti possiamo immediatamente inviare una segnalazione a Facebook. Per farlo basta cliccare in alto a destra sul singolo post, dove appare il simbolo “…” e scegliere l’opzione “Segnala il post agli amministratori del gruppo”. Se, invece, è il gruppo a proporre contenuti inopportuni o illegali è possibile andare sul profilo del gruppo e cliccare “…”, a destra, sopra “informazioni” e cliccare l’ultima opzione, “segnala gruppo”. Diventare utenti più consapevoli e segnalare è importante perché contribuisce a alzare la qualità della rete. Inoltre, spesso è il primo importante passo per salvaguardare i diritti, nostri e delle altre persone.
Sì, è reato penale
Condividere immagini senza consenso è reato. Chi pubblica o diffonde foto personali può incorrere nel reato previsto dall’articolo 612‑ter del codice penale, con pena da uno a sei anni di reclusione e multa fino a 15 000 €. Le vittime possono denunciare sia chi ha scattato la foto sia chi l’ha diffusa, anche all’interno di gruppi o chat.
Il caso Stefano De Martino e il precedente: privacy violata, leggi attive
Negli ultimi giorni si è diffusa la notizia di un furto di video privati rubati dalle telecamere di sicurezza dell’abitazione della compagna di Stefano De Martino, Caroline Tronelli. La Polizia Postale e il Garante per la Privacy sono intervenuti tempestivamente, ordinando il blocco delle pubblicazioni e avviando indagini con l’ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico, interferenza nella vita privata e revenge porn.
Il precedente riguarda un video privato che ritraeva Belen Rodriguez e l’ex fidanzato argentino Tobias Blanco in rapporti intimi, apparso online nel 2011. Il filmato era stato girato anni prima, in un contesto privato. La sua diffusione fu non solo un danno d’immagine enorme e una sofferenza per le persone coinvolte, ma anche un campanello d’allarme su una zona grigia del diritto.
All’epoca non esisteva ancora una norma specifica che punisse la condivisione non consensuale di materiale sessualmente esplicito, se non attraverso strumenti generici come la tutela della privacy, il diritto d’autore (art. 96 e 97 della legge sul diritto d’immagine, L. 633/1941) o la diffamazione. Il clamore mediatico e giudiziario che accompagnò la vicenda contribuì a rafforzare la consapevolezza pubblica della necessità di una protezione specifica.
Negli anni successivi, proprio anche grazie a casi come questo, si arrivò all’introduzione di una norma ad hoc: nel 2019, con il cosiddetto Codice Rosso, entrò in vigore l’articolo 612-ter del codice penale, che punisce con pene severe la diffusione non consensuale di immagini o video sessualmente espliciti, il fenomeno ormai noto come revenge porn.
Durante l’estate il caso di Raoul Bova ha evidenziato come la violazione della privacy non riguardi solo immagini intime, ma possa estendersi a conversazioni e audio privati. La diffusione senza consenso delle registrazioni con la compagna ha portato all’intervento del Garante della Privacy, la quale ha imposto la rimozione immediata dei file e aperto un’istruttoria. Parallelamente la Procura ha avviato un’indagine per tentata estorsione, ipotizzando che il materiale fosse stato usato come strumento di ricatto.
L’episodio ci insegna che non esiste distinzione tra video, foto o messaggi vocali: qualsiasi contenuto personale, se divulgato senza autorizzazione, rappresenta una violazione perseguibile per legge, con conseguenze penali e amministrative sia per chi lo pubblica sia per chi lo rilancia.
Il Codice Rosso e la cultura del consenso
Il Codice Rosso è la legge entrata in vigore in Italia nel 2019 (Legge 69/2019), pensata per accelerare e rafforzare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. La norma ha introdotto nel codice penale nuovi reati, tra cui la diffusione illecita di immagini e video sessualmente espliciti senza consenso, conosciuta come revenge porn (articolo 612-ter).
Le pene previste vanno da uno a sei anni di reclusione e si applicano non solo a chi pubblica ma anche a chi scarica e inoltra il materiale. Inoltre, il Codice Rosso disciplina reati connessi come la molestia, che può manifestarsi anche in rete attraverso commenti osceni, messaggi volgari o insistenti che ledono la dignità della persona. Se da un lato la legge fornisce strumenti concreti per denunciare e punire i responsabili, dall’altro non può impedire che contenuti lesivi si diffondano rapidamente in rete, moltiplicandosi in maniera incontrollata.
Per questo è vitale lavorare non solo sulla repressione penale, ma anche sulla cultura del consenso. Troppo spesso ciò che manca è la consapevolezza che la diffusione di immagini, video o parole offensive senza permesso rappresenta una forma di violenza a tutti gli effetti.
Che cosa possiamo fare quando un’immagine viene diffusa senza il nostro consenso?
La legislazione italiana riconosce e affronta la violazione nella diffusione di immagini con strumenti concreti. Tuttavia, spesso bloccare l’azione in atto non è così semplice perché i materiali pubblicati in rete tendono a diffondersi velocemente, da una piattaforma all’altra.
Quando un’immagine privata viene diffusa senza autorizzazione, il primo passo è denunciare immediatamente l’accaduto alla Polizia Postale, che ha competenza specifica sui reati commessi online. È importante conservare prove come screenshot, link, chat e qualsiasi elemento utile a ricostruire la catena di condivisione.
Oltre alla Polizia Postale, ci si può rivolgere al Garante per la Protezione dei Dati Personali, che può ordinare la rimozione dei contenuti e sanzionare chi li ha diffusi. Esistono anche numeri e canali dedic