La morsa del regime sulle donne senza velo

15.04.2024
La morsa del regime sulle donne senza velo
La morsa del regime sulle donne senza velo

Da Khamenei l’offensiva contro ragazze e signore che sfidano a capo scoperto la polizia religiosa. Nella metro volontari del regime impediscono alle «malvelate» di salire sulle carrozze

La Guida suprema Ali Khamenei l’aveva annunciato venerdì, durante la preghiera della fine di Ramadan. «Colpiremo il nemico esterno e il nemico interno». Aveva detto proprio così il massimo esponente del clero sciita, chiamando alle armi pasdaran e ciechi sostenitori del regime sul duplice fronte, la rappresaglia contro Israele da una parte e dall’altra l’offensiva contro l’opposizione più pericolosa, quella delle donne che da quasi due anni, inossidabili alla violenza, sfidano a capo scoperto la polizia religiosa e l’intero impianto ideologico della Repubblica islamica.

Sabato, mentre tra le due sponde dell’oceano rimbalzavano le informazioni delle intelligence sull’attacco imminente, la repressione era già al lavoro nelle strade di Teheran, Eshfan, Karaj, Qum, Saqqez, in quell’indomito Kurdistan iraniano dov’era nata Mahsa Amini, l’icona della rivoluzione «donna, vita, libertà».

«Poliziotte vestite di nero sbucano da ogni vicolo e, spalleggiate dai colleghi uomini, circondano le donne senza velo, ormai sempre più numerose, per trascinarle nelle camionette parcheggiate dappertutto» racconta Shirin su Telegram, la piattaforma considerata più sicura. Nata nel 1993 da genitori che, da sinistra, avevano contribuito al terremoto del 1979, è testimone di quanto sta accadendo a Karaj: «Dopo le giovani donne tocca alle madri che le difendono, agli uomini che indossano i bermuda, a chi passeggia con il cane al guinzaglio, la mobilitazione contro il nemico esterno è, ancora una volta, l’occasione migliore per silenziare il dissenso interno». Vietato disturbare il manovratore che sfida Israele. Voci analoghe giungono da tutte le principali città dell’Iran.

«La possibilità che venga uccisa dalla polizia religiosa è migliaia di migliaia di volte superiore a quella che muoia durante un bombardamento» scrive – disperato messaggio nella bottiglia – la venticinquenne Pardis di Teheran, spiegando di essere pacifista come la stragrande maggioranza del movimento “donna, vita, libertà” ma di aver oltrepassato il limite della umana sopportazione. Tutto fuorché il giogo della Repubblica Islamica. C’è chi, in queste ore concitate, è arrivato ad auspicare le bombe israeliane pur di fare piazza pulita del regime. Quando il sito del ministero degli esteri di Tel Aviv ha postato su Instagram il messaggio in farsi in cui diceva di avere tutto contro gli ayatollah e niente contro il popolo iraniano sono arrivate quasi trecentomila risposte in poche ore. «Abbiamo lo stesso nemico, mirate bene».

«Aspettiamo il rovesciamento del regime». «Siamo l’unico Paese al mondo in cui il governo si preoccupa del popolo meno di quanto facciano i nemici». Molti post sono sicuramente propaganda, altri riflettono l’umore minoritario dei monarchici e quello velenoso dei “mojahedin del popolo”, ma c’è, nell’esasperazione delle iraniane e degli iraniani, una genuina speranza nel colpo di grazia al regime.

«È passato un anno e mezzo dalla rivoluzione di Mahsa Amini e la pressione che il regime iraniano esercita sulle donne per farle tornare indietro è sempre più forte» insiste Narsis. «Da quasi due anni il numero delle donne cosiddette “malvelate” aumenta ogni giorno e loro vogliono farci tornare indietro». Reset a colpi di taser per ripartire dal via: come se Mahsa Amini fosse ancora viva, come se lo fosse la sedicenne Armita Garawand, come se il cantante Shervin Hajipour non fosse stato condannato a quasi 4 anni di carcere per aver composto l’inno della rivoluzione “Baraye” , come se oltre 19 mila attivisti non fossero in prigione e quasi 600 non fossero stati ammazzati.

«Vogliono farci tornare indietro». Ripete il concetto più volte Narsis, quasi che la voce potesse raggiungere il tavolo del G7 intorno al quale i grandi del pianeta studiano in queste ore le tattiche per scongiurare la grande guerra ma non pensano neanche per un momento alle donne che la combattono da dentro. La sua esperienza è quella di tante: «Rifiutando il velo obbligatorio e boicottando i luoghi come le banche in cui devono indossarlo, le donne continuano a sfidare il regime. Sono andata a rinnovare la patente e non mi hanno accettato perché non portavo il velo, sono andata in un albergo per prendere un caffè e mi hanno rifiutato il servizio a meno che non coprissi il capo, mi hanno sequestrato la macchina diverse volte perché guidavo con i capelli al vento».

Da qualche giorno la pressione è ancora più forte, nella metropolitana sono comparsi «volontari» che impediscono alle «malvelate» di salire sulle carrozze.

Il nemico esterno è una bandiera. Quello interno, chiosa Shirin, «è la malattia che nessuna bandiera più nascondere». Svelandosi, le donne iraniane hanno messo a nudo il regime che adesso può soltanto colpire, fuori, dentro, alla cieca.

Fonte: LaStampa

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