Roma, 11 novembre 2025 — Secondo un’inchiesta di Euronews, dal febbraio 2022 le imprese italiane ancora operative in Russia hanno pagato più di 1 miliardo di euro in imposte, di cui almeno la metà sarebbe confluita nel finanziamento delle spese militari del Cremlino. Queste entrate fiscali sostengono indirettamente la macchina bellica russa impegnata nella guerra contro l’Ucraina.
Le cifre e le aziende coinvolte
In media, le imprese italiane versano ogni anno circa 346 milioni di euro di tasse al fisco russo, per un totale stimato di 1,037 miliardi dall’inizio dell’invasione. Attualmente 146 aziende italiane continuano a operare in Russia: circa 30 di esse stanno valutando un’uscita dal mercato, mentre la maggioranza mantiene una presenza legale o continua a esportare. Tra i grandi marchi ancora attivi figurano Ferrero, Barilla e Calzedonia.
Al contrario, colossi come Enel, Eni e Moncler hanno lasciato il Paese dopo l’introduzione delle sanzioni europee.
Il contesto internazionale
L’Italia figura tra i Paesi europei con il maggior numero di operazioni economiche ancora attive in Russia. A confronto, la Germania conta 459 aziende, il Regno Unito 290 e gli Stati Uniti circa 810. Nonostante la condanna ufficiale dell’aggressione russa e il sostegno militare a Kyiv, le lacune normative e le eccezioni nei regimi sanzionatori permettono a molte imprese di proseguire le attività, anche attraverso filiali o canali indiretti.
Nel complesso, oltre 2 200 aziende occidentali continuano a operare in Russia, contribuendo con le loro tasse a un bilancio statale che finanzia anche l’apparato militare.
Rischi etici, legali e reputazionali
Le aziende straniere in Russia pagano imposte su utili, IVA e contributi sociali che confluiscono nel bilancio federale. In tempo di guerra, tali fondi contribuiscono a sostenere lo sforzo bellico del Cremlino. Restare sul mercato russo espone le imprese non solo a rischi reputazionali — come l’inserimento negli elenchi internazionali dei “sponsor di guerra” — ma anche a potenziali sanzioni secondarie che possono compromettere le operazioni in altri mercati.
Il ritiro delle multinazionali e la pressione pubblica
Solo nell’aprile 2025, sette grandi aziende internazionali, tra cui Goldman Sachs, Caterpillar e YKK, hanno annunciato la cessazione delle attività in Russia. Molte altre si sono ritirate parzialmente a causa della confisca di beni o delle pressioni di governi, investitori e opinione pubblica. Le campagne civiche e i fondi etici continuano a chiedere un’uscita totale dal mercato russo, sostenendo che ogni presenza economica residua aiuti a finanziare la guerra e contraddica i principi del diritto internazionale e della responsabilità d’impresa.
Una questione di etica e sicurezza europea
La permanenza delle aziende occidentali in Russia non è solo un problema morale, ma anche strategico: i flussi fiscali generati dalle loro attività contribuiscono alla resilienza finanziaria del regime russo. L’uscita completa del capitale europeo e statunitense dal mercato russo rappresenterebbe quindi non solo un gesto simbolico di solidarietà con l’Ucraina, ma anche una misura concreta di sicurezza economica e geopolitica per l’intera Europa.