Proviamo a mettere insieme alcuni fatti, con caratteristiche ben distinte, proporzioni e pesi incomparabili, che si sono manifestati nei due principali teatri di guerra del momento: la striscia di Gaza e l’Ucraina. Distinti dunque, ma che riconducono alla contraddizione tra governanti e governati, ossia tra chi la guerra la decide e chi la combatte sul campo. In alcuni casi si tratta di crepe e fratture allo stato iniziale, in altri di fenomeni imponenti che possono anche determinare l’esito dello scontro.
In Ucraina più ancora che la penuria di armi, ripetutamente lamentata dal governo di Kiev, incide una penuria di uomini e motivazioni. Ma se ne parla assai meno perché è un tema imbarazzante che tocca direttamente la legittimazione del potere statale. Una inchiesta condotta per conto di Al Jazeera da Peter Korotaev e Volodymyr Išcenko e pubblicata in Italia da Internazionale rivela dati impressionanti sulla renitenza alla leva, sulle diserzioni e più in generale sulla disponibilità a mobilitarsi per la difesa del paese. Nel 2024, riferisce l’articolo, ben sei milioni di persone chiamate a trasmettere i propri dati ai centri di reclutamento non lo hanno fatto, mezzo milione di procedimenti sono in corso per il reato di renitenza alla leva, prospera il mercato delle esenzioni e i disertori non si contano. Inoltre, gran parte dei soldati schierati al fronte ci sono stati trascinati con la forza e brutalmente trattenuti. Nella maggior parte prevale sfiducia e risentimento nei confronti del governo e non solo per la guerra, ma anche per la politica oligarchica e impopolare che la ha preceduta.
Neanche in Russia il fenomeno della renitenza, dell’espatrio e della diserzione è insignificante, ma le enormi dimensioni del paese, la censura e le misure repressive rendono difficile quantificarlo e metterne in luce le diverse motivazioni. Qualunque critica, neanche troppo radicale, dell’invasione russa conduce direttamente in galera. Figuriamoci un’indagine su renitenti e disertori.
In Israele è invece in visibile crescita il numero dei riservisti che non si presentano per il servizio militare, quello dei renitenti, e alcune voci, anche dall’interno dell’esercito, in esplicito dissenso con la conduzione della guerra a Gaza. Potrebbe riprendere piede con l’escalation espansionista israeliana un movimento di rifiuto della propria partecipazione alla guerra, analogo a quello dei refusenik esploso durante la guerra in Libano nel 1982.
Infine le manifestazioni per la fine della guerra e contro Hamas all’interno della striscia di Gaza nello scorso marzo, proteste che esprimevano tutta la rabbia di una popolazione stremata per le scelte politico-militari senza sbocchi ma dalle prevedibili conseguenze, che hanno determinato l’attuale catastrofe umanitaria.
Le motivazioni e le forme di queste resistenze, che muovono del resto da condizioni non paragonabili, sono molto diverse. E va subito chiarito che quelle di natura etica o di indignazione per gli orrori di cui si è stati testimoni non sono prevalenti. Più diffusa è la sensazione di essere manipolati dalle forze politiche dominanti, di essere asserviti a interessi particolari senza trarre per sé alcun beneficio, oppure la sfiducia e il risentimento nei confronti di governi che chiedono continuamente sacrifici senza offrire nulla in cambio. Infine, ma non in ultimo, il desiderio di salvaguardare la propria vita e integrità. Il rifiuto della guerra, insomma, è sempre anche rifiuto del proprio governo, che sia aggredito o aggressore, democratico o autoritario.
All’incompatibilità tra guerra e democrazia ci introduceva già un celebre testo classico, il passo forse più citato della Guerra del Peloponneso di Tucidide: il dialogo tra i Meli e gli Ateniesi. Il brano viene solitamente citato per mettere a confronto le ragioni della giustizia (i Meli che rivendicano la loro pacifica neutralità) con quelle della forza (la politica di assoggettamento) degli Ateniesi. I quali tagliano corto affermando che la giustizia può intervenire solo tra contendenti dotati di potere più o meno equivalente, mentre dove vi sia sproporzione conta solo la forza. La geopolitica contemporanea ha poco da aggiungere. Ma merita invece attenzione una piccola premessa al dialogo con gli ambasciatori ateniesi: «I Meli non li introdussero dinanzi all’assemblea, ma li invitarono ad esporre le ragioni per le quali erano venuti dinanzi ai magistrati e ai maggiorenti». Gli Ateniesi capiscono al volo che «le trattative non si svolgono dinanzi al popolo, evidentemente per evitare che i più si lascino da noi ingannare» ma in fondo condividono la logica di questa esclusione, che è poi quella del potere sovrano. La resistenza decisa dai maggiorenti finirà malissimo.
Un episodio riportato nel Libro dei re rafforza questa esclusione della volontà popolare dalle questioni della pace e della guerra. Nel 701 a.C. Gerusalemme è assediata dagli Assiri. Eliakim, portavoce degli assediati, così si rivolge al comandante nemico: «Ti prego, parla in aramaico, perché noi intendiamo la tua lingua, ma non ci parlare in lingua giudaica, poiché il popolo, che è sopra le mura, ascolta». Ma l’assiro, che intuisce la possibile distanza tra l’interesse popolare e quello del regnante, parla in giudaico proprio per approfittarne.
Lunga è dunque la storia che sottrae al demos la decisione sulla pace e sulla guerra. Dichiarazioni di guerra e trattati di pace non procedono per via democratica e non possono essere sottoposti a referendum. Anche il programma di riarmo della Ue, come abbiamo visto, è stato sottratto al normale iter parlamentare. Perché già la preparazione bellica è incompatibile con la trasparenza e la democrazia. La guerra in Ucraina, intanto, rinvia sine die le elezioni politiche e il giudizio su Zelenskyj. Quella di Gaza, alla quale altre già vanno aggiungendosi in Libano e Siria, eternizza e rafforza il potere personale di Benjamin Netanyahu e della sua conventicola. Grazie alla guerra i caratteri democratici e il residuo di laicità dello stato di Israele vengono smontati pezzo dopo pezzo, le opposizioni messe a tacere, l’impunità garantita a criminali di guerra e politici profittatori. L’emergenza, assai spesso artificiosa e interessata, è lo strumento meglio collaudato per restringere o cancellare del tutto diritti e democrazia. La guerra, come emergenza estrema, il più radicale ed efficace di tutti. Le guerre sono dunque sempre contro la democrazia, anche quando vengono dichiarate con il pretesto di difenderla.
Probabilmente è questo che obiettori, renitenti e disertori hanno ben compreso, sottraendosi al sacrificio per qualcosa che in nessun modo li rappresenta. Poiché nella guerra non vi è alcuna rappresentanza se non quella di entità astratte, ideologiche o integralmente ostili alla vita reale.