Perché i milioni donati da Elon Musk a Donald Trump sono un pericolo per la democrazia

23.07.2024
Perché i milioni donati da Elon Musk a Donald Trump sono un pericolo per la democrazia
Perché i milioni donati da Elon Musk a Donald Trump sono un pericolo per la democrazia

Il senatore di Italia Viva, Enrico Borghi, a Today.it: “Si tratta di un’operazione di potere che permette a chi detiene gli strumenti dell’informazione e della comunicazione di immettere nel sistema globale una mole di notizie, di informazioni, di dati di chi utilizza questo tipo di strumenti”

L’America sta vivendo un momento senza precedenti nella storia: l’attentato a Donald Trump, il ritiro del presidente Joe Biden dalla corsa per la Casa Bianca, le tante incertezze sulla candidata o sul candidato che dovrà sostituirlo, con Kamala Harris, che sembra la favorita ma con uno scenario che muta di ora in ora. E con il destino del Paese sempre più in mano ai grandi investitori, quelli che pagano le campagne elettorali dei candidati e impongono loro la linea politica. È di qualche giorno fa la notizia, riportata dal Wall Street Journal, che Elon Musk, impegnato con le sue diverse aziende in campagne aerospaziali, nelle neurotecnologie, nell’intelligenza artificiale, nelle auto elettriche e nei pannelli fotovoltaici, nei social network e nei trasporti super veloci, nonché seconda persona più ricca del mondo (con un patrimonio stimato al febbraio 2024 in 205,2 miliardi di dollari) donerà al comitato America PAC, creato per appoggiare la campagna presidenziale di Donald Trump, 45 milioni di dollari al mese.

I colossi della rete schierati con il tycoon

America PAC ha ricevuto anche il sostegno di associati del miliardario, tra cui l’investitore tecnologico Joe Lonsdale, Antonio Gracias (ex direttore di Tesla e attuale membro del consiglio di SpaceX), l’investitore Kenneth Howery e i partner di Sequoia Capital, Shaun Maguire e Doug Leone (che aveva pubblicamente condannato Trump dopo gli avvenimenti del 6 gennaio). Con loro, fa sapere Enrico Borghi, senatore di Italia Viva, tramite un messaggio consegnato proprio a X, il social network di proprietà di Musk, i gemelli Vinklevoss, della cui esistenza in molti abbiamo saputo solo dopo The Social Network di David Fincher (sono loro ad aver inventato il social network universitario che poi Mark Zuckerberg chiamerà Facebook) e Marc Andreessen, la persona più influente di tutta la Silicon Valley: è l’ideologo di un tecno-ottimismo radicale che, tra investimenti e speculazioni miliardarie, continua a plasmare il mondo dell’innovazione tecnologica e quindi quello in cui viviamo, che con Ben Horowitz, ha dato vita al fondo d’investimenti Andreessen-Horowitz (oggi noto come a16z), che gestisce asset per un valore di 35 miliardi di dollari ed è tra i principali investitori in settori fortemente speculativi (come le criptovalute o il web3) e altamente strategici come le biotecnologie o l’intelligenza artificiale.

Con il tycoon, insomma, si è già schierata molta della Silicon Valley, quella che detiene una fetta preponderante delle ricchezze di quello che Nick Srnicek ha definito capitalismo digitale (in “Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web”, LUISS University Press, Roma, 2017), vale a dire “quel tipo di imprese che sempre più fanno affidamento sulla information technology, sui dati e su internet per il proprio modello di business”.

Siamo in un’era, scrive ancora Borghi, “che non ha regole e non è soggetta ad autorità. E questo clima da Far West è l’ideale per chi accumula ricchezze immense e non ne risponde in alcun modo, né in termini fiscali né in termini di responsabilità. Tra Trump e Musk, il secondo è il dominus. Un problema non da poco, per la democrazia di oggi e di domani”. Il Senatore approfondisce il concetto a Today.it: “Il capitalismo digitale impatta direttamente sulla questione essenziale di questi decenni: il tema dell’informazione, intesa sia in termini di comunicazione, di trasmissione del pensiero, dei fatti e delle opinioni, sia in termini di raccolta dei dati che afferiscono a questo tipo di modalità determinata dalla rete”.

Siamo, insomma, in uno scenario che secondo il saggio di Shoshana Zuboff  “Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” (LUISS University Press, Roma, 2019), è alla base del nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana sotto forma di dati come materia prima per pratiche commerciali segrete e alimenta un movimento di potere che impone il proprio dominio sulla società sfidando la democrazia e mettendo a rischio la nostra stessa libertà. “Si tratta di un’operazione di potere – prosegue Borghi – che permette a chi detiene gli strumenti dell’informazione e della comunicazione di immettere nel sistema globale una mole di notizie, di informazioni, di dati di chi utilizza questo tipo di strumenti. E a questo si aggiunge un rischio quasi distopico, in cui la specie umana possa venire re-ingegnerizzata tecnologicamente”.

“Il capitalismo digitale impatta direttamente sulla questione essenziale di questi decenni: il tema dell’informazione, intesa sia in termini di comunicazione, di trasmissione del pensiero, dei fatti e delle opinioni, sia in termini di raccolta dei dati che afferiscono a questo tipo di modalità determinata dalla rete”.

Enrico Borghi a Today.it

Non a caso, il 18 marzo lo stesso Musk sul suo social network aveva twittato: “Moderation Is a Propaganda Word for Censorship” (“Moderazione è un termine della propaganda, che in realtà significa censura”); cosicché nell’auspicato vuoto di controllo si sono insinuate le idee più estremiste, insieme a un esercito di manipolatori.
”Non possiamo pensare di governare un fenomeno così complesso come singola nazione – fa presente ancora il senatore Borghi – La Cina, ad esempio, ha creato quella che ha definito la grande muraglia digitale nella quale non fa passare nessuna informazione che non sia controllata dal grande fratello cinese. Non sono per la censura, né per il controllo, né per l’impedimento dello scambio delle comunicazioni. Sono a ché questa realtà venga governata. Lo sviluppo senza freni e senza limiti di quella che è stata definita l’infocrazia (da Byung-chul Han, nel suo ultimo saggio pubblicato da Einaudi nel 2023, ndr.) cioè la trasformazione della nostra società da democrazia, il potere del popolo, a infocrazia, il potere di chi detiene gli strumenti della comunicazione, dell’informazione, della raccolta dei dati che afferiscono a questo sistema”. Scrive il filosofo tedesco in Infocrazia: “Nel regime dell’informazione essere liberi non significa agire, ma cliccare, mettere like e postare”. I “dataisti”, infatti, sognano una società senza sociale, che proceda senza politica, soddisfatti di aver rotto il processo democratico con lo stordimento di una informazione euforica. E non controllata da nessuno, aggiungiamo noi.

“Bisogna far crescere un capitalismo digitale sui valori della nostra civiltà”

“Penso che le elezioni americane siano un campanello d’allarme – continua Borghi – perché se si saldano questi due pensieri, quello della disinformazione e delle fake news da una parte, e quello pensiero transumanista, che immagina che attraverso l’incrocio tra uomo e tecnologia si possa creare l’uomo perfetto (vorrei ricordare che il signor Musk attraverso una società che si chiama Neuralink, sta studiando l’applicazione tecnologica sul sistema neurale umano) dall’altra, a mio giudizio si chiudono spazi di libertà e si apre invece la strada ai disvalori, quando invece ci sarebbe bisogno di una risposta democratica”. Cercare alleanze virtuose con le big tech rimaste fin qui fuori dall’agone politico pare dunque una delle poche strade: “Non penso che la strada cinese o quella eritrea, dove il regime ha chiuso definitivamente l’accesso a internet – conclude il senatore di Italia Viva – siano strade da noi praticabili. Dobbiamo separare, diciamo evangelicamente, il grano dal loglio: bisogna far crescere un capitalismo digitale che voglia costruire sui valori fondamentali della nostra civiltà, i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di fraternità, il proprio modello di business. A mio giudizio questa è la sfida del ventunesimo secolo per i sistemi democratici”.

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