Le elezioni europee possono essere la svolta per costruire un futuro più sostenibile e votato alla crescita
L’Italia è davvero come il Don Abbondio de «I Promessi Sposi», un «vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»? In realtà, le cose non stanno esattamente così: l’Italia è certo un vaso di terracotta, per di più con molte crepe, un esempio particolarmente grave di malattie economiche. Queste malattie, però, sono molto diffuse in Europa, dentro e fuori l’Unione Europea. Proprio ieri, il Fondo monetario internazionale ha ammonito il Regno Unito (dove, ovviamente, non si vota per il Parlamento Europeo, ma ci saranno elezioni politiche tra pochi mesi) di non procedere a ulteriori sgravi fiscali se vuole evitare di uscire dall’attuale sentiero di recupero.
Con le elezioni europee che si stanno approssimando, questo monito deve essere esteso, con qualche variante a quasi tutta l’Unione Europea: qui siamo quasi tutti dei vasi di terracotta. In Francia, tanto per fare un esempio, nel 2023 il deficit pubblico ha raggiunto i 154 miliardi di euro, ossia il 5,5 per cento del Pil, certo inferiore, ma non troppo distante da quello italiano (7,4 per cento); per il 2024 le previsioni iniziali hanno dovuto essere riviste al ribasso e il governo di Parigi ha il bisogno urgente di trovare 10 miliardi di euro. La Germania, un paese abituato ad avere il bilancio in forte attivo, dopo il Covid non riesce più a raggiungere un saldo positivo; le previsioni di crescita del Pil di quest’anno sono a poco più di zero. I Paesi Bassi, con un’economia molto solida, hanno visto la loro velocità di crescita scendere fortemente negli ultimi mesi. E l’elenco potrebbe continuare.
Se guardiamo fuori dall’Europa, i vasi, al contrario, sono spesso di ferro. Un ferro “militare”, però, che si vede all’opera non solo in Ucraina e a Gaza ma anche nell’Africa sub-sahariana con una netta ritirata francese negli ultimi anni e con tensioni crescenti tra Cina e Stati Uniti a proposito di Taiwan. Anche in questo caso, l’elenco potrebbe senz’altro continuare.
Che cosa possiamo fare noi europei, che cosa possiamo fare noi italiani, anche tenendo conto che il lunedì 10 giugno – quali che siano i risultati delle urne – tutti i governi nazionali rimarranno esattamente al loro posto? Con la sensazione, però, che sarà in certi casi inutile, in altri impossibile riprendere i discorsi, più o meno populisti, degli attuali governi e che il «gioco politico» si sposterà sempre di più a Strasburgo e a Bruxelles, probabilmente con molte facce nuove e con istanze non sempre prevedibili. Non sarà più possibile, in altre parole, illudersi di andare avanti con gli attuali sistemi sanitari e pensionistici nazionali, con sussidi più o meno nascosti, con i giovani che hanno difficoltà a trovare lavoro, con politiche per l’immigrazione che esistono solo sulla carta, e via discorrendo. Non solo l’Italia, ma l’intera Unione Europea, dopo aver portato a termine abbastanza bene un’ampia fase relativa ai meccanismi commerciali, deve salire su scalini più alti.
Questo discorso non può non passare attraverso la Bce, la banca centrale che, durante l’epidemia di Covid, è stata in grado di immettere nel sistema la liquidità necessaria per tenerlo a galla. Queste sue funzioni devono essere riconosciute e normalizzate rendendo possibile il passaggio neppur tanto graduale, dai debiti pubblici nazionali a un debito pubblico europeo. Alla Bce devono essere assegnati degli obiettivi non solo di controllo dell’inflazione ma anche di creazione di risorse finanziarie sufficienti a garantire livelli adeguati di occupazione e di crescita.
Ugualmente, devono essere «normalizzate», superando i livelli nazionali, diverse funzioni-chiave, dalle politiche energetiche a quelle ambientali, da programmi di successo – talora sorti pressoché spontaneamente, come l’Erasmus – a vere e proprie lauree europee (anche con l’aggiunta di paesi esterni all’Europa).
Infine, i vasi di terracotta devono rendersi conto che di qualche struttura in ferro c’è bisogno: partiamo da un sistema di difesa interconnesso con quello degli Stati Uniti, qual è la Nato, nel quale, però, l’interesse degli americani è comunque in diminuzione. La mossa verso un sistema difensivo europeo riguarda in primo luogo la Germania, le cui forze armate sono talora apertamente indicate dai tedeschi come non «kriegstuechtig», ossia impreparate ad azioni belliche.
Su questi temi, in Italia e altrove, sentiamo poche, pochissime voci. Stiamo per affrontare una prova senza precedenti dall’economia alla politica, vogliamo orizzonti più larghi per un futuro a lungo termine. Cari candidati, per favore, per favore, non parlateci soltanto del condono per i piccoli abusi edilizi come le pareti di cartongesso; sforzatevi un poco di pensare a come può essere possibile un futuro – diciamo tra 10-30 anni – dignitoso, efficiente, sostenibile, privo di guerre e con minori fratture sociali e con maggior serenità.