Non c’è un altro festival come Ypsigrock, in Italia

22.08.2024
Non c'è un altro festival come Ypsigrock, in Italia
Non c'è un altro festival come Ypsigrock, in Italia

L’Ypsigrock è il segreto meglio custodito della musica italiana. È un festival relativamente piccolo, ciascuna sera non arriva ai tremila paganti di capienza, dal 1997 si svolge ogni agosto ‒ quest’anno è stato dall’8 all’11 ‒ a Castelbuono, un paese sui colli a una manciata di chilometri di Palermo. Lì, dove i ritmi sono rallentati oltre le banalità da Vita Lenta, ciclicamente va in scena il paradosso: da un lato la realtà della zona, gli anziani in piazza, le granite e gli addetti alla raccolta differenziata che usano i somari per muoversi tra le viuzze; dall’altro, una line-up con artisti da tutto il mondo, tra le più internazionali da noi, di solito sorpresi e a loro agio nell’accoglienza del posto.

Più di un boutique festival

Il termine ombrello sotto cui finisce una manifestazione del genere è “boutique festival”: un festival piccolo, a misura d’uomo, curato in ogni dettaglio. È così che si è fatto un nome a livello mondiale, con uno zoccolo di appassionati che arrivano da tutto il mondo e artisti che, grazie al passaparola, sono disposti anche a tagliarsi parte del cachet pur di suonarci. Il Guardian, tra i tanti, l’ha messo tra i festival europei da non perdere, ma la verità è che questa quattro giorni di concerti è un’esperienza unica, con pochi simili dovunque si guardi.

Mettiamola così: la prerogativa dei festival internazionali, grandi o piccoli, dal Primavera Sound di Barcellona e lo Sziget di Budapest in giù, è di offrire più della sola musica, di garantire agli spettatori una sorta di esperienza, il poter stare in una bolla; in Italia, vuoi per mancanza di strutture, soldi, cultura e ‒ si dice, ma chissà ‒ pubblico, ricreare situazioni così è impossibile, o quasi. Ma ecco, l’Ypsigrock più che un modello è proprio un’eccezione: dove gli altri sono prove di resistenza fisica, estenuanti e costose, a Castelbuono c’è un’oasi cresciuta un po’ alla volta, in cui il gusto e la ricerca per il nuovo ‒ c’è il meglio della musica alternativa da tutto il mondo, senza trincerarsi nella riserva indiana del rock duro e puro, ché non ha senso ‒ s’abbina a una serie di aspetti per nulla italiani, da una gestione razionale degli spazi della piazza dov’è organizzato (la suggestiva Piazza Castello, con possibilità di stare larghi e avere un’ottima visuale dalla scalinata) a una line-up quasi tutta straniera, fino all’abbattimento totale delle varie code, all’assenza di token, alla possibilità di uscire dall’area del live per farsi una passeggiata tra un concerto e un altro e a dei prezzi umani. Non sembra vero, eh? In più, gli orari sono rispettati al secondo e vige la regola per cui ci si esibisce sul palco principale una volta sola nella vita di un progetto artistico ‒ tradotto, ogni anno ci si rinnova ‒ e il gioco è fatto.

Una musica da scoprire

Colapesce, che qui è cresciuto, l’ha definito il “festival più bello… del mondo”. L’ha fatto durante il concerto con Dimartino, prima sera, l’unica con l’headliner italiano (nel 2023 c’erano i Verdena, per capirci), in un set partecipato e sentito dai protagonisti. Ma la realtà è che è un parere condiviso, con i musicisti a cui non sembra vero di trovarsi in un posto così. Era toccato, in passato, a gruppi mitici come The National (2019) e Mogwai (2011), e stavolta è stato lo stesso Kae Tempest, notoriamente non così espansivo a lasciarsi andare. È il re dello spoken word, e ospitare lì il suo concerto in cui elettronica, rap e poesia s’incontrano è stato un colpaccio degli organizzatori. Così come lo è stato ospitare il post-rock progressivo degli Explosions in the Sky o l’indie-pop dei Royel Otis, due chitarristi australiani tra gli astri nascenti più brillanti della musica indipendente, e che Ypsigrock ha colto appena prima che diventino una cosa troppo grande. Non è una novità, neanche questa: il festival è anche scoperta.

Chiaro, non tutte le scelte sono o sono state memorabili ‒ gli statunitensi Model / Actriz, tra i tanti, sono sembrati un “troppo rumore per nulla”, mentre gli inglesi Nation of Language scontano l’essere troppo derivativi rispetto a gruppi come i Depeche Mode e Smiths ‒ ma la chiave è lì: partecipare significa lasciarsi guidare, fidarsi, ma anche criticare; sono pochi i festival, nel mondo, che vantano un pubblico così affezionato, attento, educato ed esperto. E che oltretutto, è l’ennesimo paradosso, non se la tira: l’atmosfera è inclusiva, è quella di una grande festa tra amici in cui c’è posto, però, per tutti. E il merito è, di nuovo, dell’organizzazione, che è riuscita a scavarsi una nicchia e a tenerla in equilibrio senza svenderla agli sponsor (ce n’è solo uno, pure ben integrato) o all’instagrammabilità (le nuove generazioni partecipano eccome, però), in un’epoca in cui le rassegne piccole scompaiono e quelle troppo grandi diventano invivibili. Non è facile, ogni edizione è un’impresa, ma ce la si fa.

L’errore, a questo punto, sarebbe pensare a un festival di profilo: se non si conoscono gli artisti, be’, non ci si va. La verità è che ne vale lo steso la pena, perché qui se ne scoprono di nuovi, in un contesto che li valorizza. E perché in questi quattro giorni di granite, talk alla mattina, live che partono dall’ora dell’aperitivo e arrivano fino a notte fonda, e ancora ristoranti, specialità del posto e poche code, sembra di essere in una bolla felice, da cui uscire rigenerati. Il contrario, insomma, di tanti festival del nostro paese, che riempiono di promesse e poi prosciugano gli spettatori di soldi, pazienza, energia.

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