Dopo il tour sul Paradiso dantesco arriva quello su San Francesco «Il teatro per me è un luogo sacro»
Sono tre anni che Simone Cristicchi gira l’Italia con Paradiso. Dalle tenebre alla luce, spettacolo in cui si confronta con la Terza Cantica della Divina Commedia in modo intimo e personale: fino a domenica è a Milano al Teatro Fontana, che lo aveva coprodotto con il suo Elsinor Centro di Produzione Teatrale. Dopo, ci dice, si dedicherà eminentemente alla nuova creatura, Franciscus. Il folle che parlava agli uccelli , un «musical solo», dedicato a San Francesco. Insieme a Concerto Mistico per Battiato, l’altro titolo in scena in questi ultimi mesi, costituisce un’ideale trilogia mistica, che segue la fase della «cura» (Abbi cura di me, canzone, album e libro) e della felicità (il progetto multimediale HappyNext. Alla ricerca della felicità). «Si chiude un percorso – ci conferma –. Ora mi dedicherò a San Francesco, questo folle e rivoluzionario, dolcissimo nella comprensione dell’umanità e spietato nell’applicazione della regola. Il suo messaggio è attuale più che mai: amo l’universalità del suo pensiero e la ricerca inesausta di dialogare con tutti ».
Dalle tenebre alla luce: è il percorso di Dante, ma anche dell’uomo in generale. Non pensa che, oggi, quella luce sia molto lontana?
«Sono ottimista, tendo a vedere sempre l’uscita dal tunnel. È il desiderio insito in ogni uomo di aspirare all’eternità. E, più prosaicamente, a vivere meglio. È l’amore che muove tutto, come dice Dante. Ma in noi esistono anche forze oscure. Sono due poli opposti che si combattono, chi vincerà alla fine è questione di crescita personale, di capacità di restare collegati alla parte miracolosa della vita. I mistici lo sostengono: la parte invisibile e spirituale è preponderante nell’uomo. Che è poi ciò di cui parlo in Paradiso non l’esegesi di Dante quanto una riflessione sulla nostra spiritualità ».
Quindi non le sembra che oggi siamo nella selva oscura?
«Oggi abbiamo una paura maggiore: si sente nell’aria una tensione che non possiamo ignorare. Lo confesso: sono preoccupato, legati come siamo alle decisioni di questi pazzi guerrafondai che governano il mondo e da cui dipende il destino dell’umanità. Però dobbiamo continuare a sperare in un Paradiso. Che non è formula consolatoria di rifugio in un’altra dimensione, quanto la meta di un viaggio di noi ospiti momentanei del Pianeta, concentrati su quanto ci ruota intorno e determinati a operare il meglio»
Come mai questa svolta mistica?
«È avvenuto in modo graduale. Nella mia carriera non ho mai programmato, mai dato retta alle spinte del marketing. Ho sempre mantenuto una libertà che mi permettesse di condividere con il pubblico i miei interrogativi. Non recito personaggi, infatti, e la musica convive con le parole, le canzoni con la prosa, in una formula che considero mia. Sono un cantautore ma anche un attore atipico: autodidatta, non so recitare con altri (quando l’ho fatto non mi sono piaciuto), ho un mio ritmo».
Un po’ come nel teatro-canzone?
«Anche se amo Gaber, che per me è stato un faro a 20 anni, non affronto le sue stesse tematiche. Volevo ispirarmi a lui, ma poi ho scoperto Marco Paolini, Vajont e il suo teatro civile e mi sono spostato in quella direzione. Ma alla fine anche da lì mi sono allontanato, raggiungendo questo ibrido. Le tavole del palcoscenico sono per me un luogo quasi sacrale da cui sprigiona una grande empatia. Al pubblico poi decidere come recepire e usare ciò che dico».
Questa sua urgenza la sente anche negli spettatori?
«Mi pare che ci sia sete di queste tematiche spirituali, che sia in corso una sorta di risveglio (lo sento soprattutto quando canto Battiato) e voglia di trascendente, proprio come reazione al presente. Ma è una fuga che non è codardia bensì, come sostiene Laborit nell’Elogio della fuga, un mettersi in salvo dai propri inferni. Lo dico perché io stesso l’ho fatto (inconsciamente) da bambino, di fronte a un grande dolore».
Cosa era accaduto?
«Mio padre era morto che avevo 10 anni. Reagii a quel grande vuoto chiudendomi nella mia stanza a scrivere e disegnare fumetti. Ho riempito in modo quasi compulsivo centinaia di quaderni di storie strampalate e buffe, alla Jacovitti. Il sorriso per esorcizzare il dolore»
Li ha ancora?
«Nel 2020 Elisabetta Sgarbi lo ha scoperto e ne ha fatta una mostra. Come conseguenza ho ripreso a disegnare, tornando alle origini (a 16 anni mi offrirono anche di entrare a far parte della squadra di una rivista a fumetti, ma rifiutai)»
Morale?
«L’arte – i fumetti, poi musica e teatro – è da sempre il mio Paradiso: mi porta fuori dalla selva oscura e nutre la mia anima. E ha permesso a quel bimbo di uscire dalla sua cameretta».
Dante a scuola spesso una dannazione per gli studenti. Che ricordo ne ha?
«Del Paradiso nulla: bypassato. Dell’ Inferno qualche vago ricordo. Ma la Divina Commedia è legata a un ricordo particolare: da ragazzino ero un lettore accanito, collezionavo libri. Ma non avevo di che pagarli, quindi li rubavo… Uno dei primi, se non il primo fu proprio una Commedia, che rubai in quanto davvero piccola e tascabile».
Ce l’ha ancora?
«Mi ha seguito in tutti i miei traslochi. Quella storia però ha un seguito: venni visto dal libraio che mi costrinse a mostrargli l’oggetto del furto. Quando vide di che si trattava, l’espressione severa si sciolse in commozione e me lo regalò. Tornai da lui, comprai molti altri libri. Continuo a essere un accumulatore seriale di libri (che non riesco a leggere)».
Com’è finito a firmare la sigla della serie Il clandestino?
«Me l’hanno offerto, quando l’ho composta, avevo solo una traccia della storia. Eppure l’ho scoperta perfettamente sovrapponibile al protagonista. Ma è anche inconsciamente un mio autoritratto: di come mi senta un irregolare non omologato al sistema. Io stesso clandestino, appunto».
Fonte: LaStampa