Tra guerra, economia in crisi e notti di paura a Kiev: il reportage dall’Ucraina sotto attacco dei russi da quasi mille giorni. “Il Donbass? I russi ci hanno portato gente da luoghi lontani per ripopolare le città, che non c’entrano più niente con noi” raccontano i militari mentre si preparano al nuovo inverno di guerra
Se l’esercito ha bisogno di soldati, le aziende hanno bisogno di lavoratori. Il 5 novembre, l’indomani dell’elezione del nuovo presidente degli Usa, Donald Trump, nella sala dei grandi eventi dell’Hotel Continental è da tempo in programma, sicuramente non a caso in questa data, un incontro dal titolo “I fattori che plasmeranno il futuro del mondo e dell’Ucraina”. Il primo ministro Denys Scmygal si presenta di fronte a imprenditori, politici e stampa, assicurando: “Gli USA hanno sempre difeso le democrazie. Questa decisione presa dal popolo americano non cambierà relazioni e rapporti tra noi e gli States.
Anche il presidente Zelensky, collegato in video mentre è in viaggio in treno, assicura che con gli Usa i rapporti sono e continueranno a essere ottimi. Assicurano che non cesserà il supporto militare ma allo stesso tempo chiedono alle aziende di tenere in piedi l’economia del Paese. Ma i lavoratori sono però al fronte e se ancora non ci sono, rischiano di finirci proprio ora.
Lavoratori, ricercatori, dottorandi e professionisti vari sono finiti a combattere, spediti dal Tcc, l’ufficio reclutamento dei militari ucraino che proprio in questi giorni sono al centro di un caso tanto grave che fronte rischiano di finirci proprio loro.
Il reclutamento forzato
I loro metodi bruschi sono oggetto di accese discussioni e critiche da mesi, ma quanto accaduto il 12 ottobre non ha precedenti da quando è cominciata la guerra. Il giorno dopo era in programma lo show di Sviatoslav Vakarchuk, in Ucraina una vera star. Il Vasco Rossi locale, per farci capire. Uno molto ben voluto anche per la sua umanità, ha suonato più nella metro di Kiev adibita a rifugio durante gli attacchi, che sui palchi, negli ultimi tempi. La voglia di festeggiare i trent’anni di carriera suoi e della sua band, gli Okean Elzy, fa registrare sold out per tutte le date previste. Per questo quelli del Tcc quel giorno raccolgono i nomi di chi aveva acquistato il biglietto per il primo live, previsto la sera dopo, per presentarsi poi ai cancelli fermando tutti gli uomini potenzialmente arruolabili, portandone via tantissimi. Non che in altre circostanze non fosse accaduto, il prelevamento di persone, ma mai in modo così evidente e plateale. E questo ha scatenato una tempesta politica tanto che dal parlamento il 12 novembre arriva la proposta di sciogliere il Tcc e di mandare questo personale dove fino a ora hanno mandato altri. Al fronte.
La sera stessa dell’appuntamento del Continental, la notte dopo l’elezione di Trump a Kiev come ogni notte, gli allarmi continuano a suonare con una certa frequenza. Basta alzare la testa e si vedono le esplosioni di droni o missili intercettati dal sistema di difesa ucraino, i Patriot americani di cui Joe Biden aveva già programmato da tempo una nuova fornitura che dovrebbe arrivare entro dicembre. La sera, la notte, le strade sono deserte e gli unici movimenti che si avvertono e rumori che si sentono, arrivano dal cielo. Un continuo scintillio di luci, che sono poi i missili o i droni che vanno in pezzi. Accade anche che il sistema non riesca a intercettare tutto, conseguenza è un fortissimo boato. Un missile ha colpito un condominio. Per fortuna non ci sono morti, ma i feriti sono una trentina. Bambini, donne e anziani. Sono circa le 5 del mattino. Tutte le notti è così. Accade anche di giorno, ma la notte è un continuo. Al mattino, dopo l’ennesima notte insonne, si aggiornano poi i dati sulle vittime civili. A Kiev comincia a fare freddo, ma non è per questo che si vedono poche persone in giro. E dei pochi giovani che si incontrano tanti arrivano proprio dal fronte. Non si può non notare da quanto sono disorientati anche solo nel camminare. Segnati irrimediabilmente dalla guerra, a venticinque anni. Altrimenti si incontrano per lo più anziani.
Le città svuotate dalla guerra
Più ci si sposta da Kiev e meno giovani si vedono. Borodyanka è stata una delle prime cittadine a essere investita nel 2022 dalla furia dei soldati russi, si trova una quindicina di chilometri dopo Bucha, dove si è compiuta una vera e propria mattanza con tanto di fosse comuni. Se quest’ultima è stata completamente ricostruita, Borodyanka è ancora in parte devastata.
Un villaggio che divenne città nel 1986 perché qui sono state trasferite migliaia di persone evacuate da Chernobyl dopo il disastro nucleare. È poco lontano, così come il confine bielorusso, da cui sono entrati i soldati di Mosca a fine febbraio 2022. Dopo essere stati respinti, del quartiere più popoloso che c’era in città non è rimasto nulla.
Quando arriviamo la sola anima viva che incontriamo è quella di un pastore tedesco. È adagiato davanti a un edificio che non ha smesso di guardare per tutto il tempo che siamo rimasti lì.
“Ci sono stati tanti morti, ma chi ha potuto è fuggito. Ci sono parti della città che sono abitabili e molti sono tornati. Ma lo vedrai, ci sono solo anziani”, racconta Olga, una volontaria che si occupa di assistere i cittadini più in difficoltà.
Per dimostracelo ci porta in piazza Shevchenko, il grande poeta e scrittore ucraino. La statua che lo celebra è piena di buchi: “I russi hanno fatto di tutto per buttarla giù, ma ha resistito anche se è molto danneggiata”. Poco più in là su una panchina quattro vecchine siedono a fianco a opere di due trai più famosi street artist del mondo, come fossero le guardiane di un museo a cielo aperto. C’è un’opera di Banksy e tre di C215, pseudonimo di Christian Guémy, il francese maestro degli stencil. “Un regalo ai giovani di Borodyanka, che però non ci sono”, dice con un sorriso amaro Olga mentre ci avviciniamo.
È qui che è stato fissato un appuntamento con tre militari. Uno è molto più giovane degli altri, più silenzioso ma attento a quel che si dice. Non ha venticinque anni, Boris, ma coordina azioni di sminamento. Andrej è di certo il più vecchio, potrebbe avere sui quarant’anni, e lui non agisce più sul campo, ma ora si occupa di costruire e assemblare droni. “Mi hanno rimesso a fare l’ingegnere”, ride facendo riferimento alla vita prima della guerra.
A Sergej non chiediamo cosa fa perché si vede. “Sono in pausa lavoro”, scherza con addosso la divisa dei reparti speciali. Ha tolto le patch ma è inconfondibile. Tutti e tre sono originari del Donbass, dove hanno pure combattuto. Vengono dalle città simbolo di questa guerra in quella regione: Mariupol, Donetsk e Lugansk.
“Non ha senso continuare a mandare uomini a morire in Donbass. Non c’è più nulla di nostro lì, né persone né luoghi”
Andrej un militare ucraino originario del Donbass
“Se uno in guerra non ci vuole andare non lo si può costringere. Non mi è mai piaciuto quello che fa il Tcc”, dice Andrej. “Che senso ha poi mandare ancora gente in Donbass. A fare cosa, a morire? Il Donbass è perso, che se lo tengano”. Lo sguardo nostro cade sugli altri per capire come la pensano. Annuiscono. “Non c’è più nessuno di noi, o sono andati via o sono stati ammazzati”, dice riferendosi ai civili.
“I russi ci hanno portato gente da luoghi lontani per ripopolarle, quelle città, che non c’entrano più niente con noi. Non c’è più nulla di nostro e nessuno di noi, lì. Meglio concentrare da altre parti gli sforzi militari”. Boris dal suo telefono mostra una serie di clip e mentre lo fa racconta la vicenda di questa signora di Lugansk che vistasi occupata la casa dai russi, che l’avevano resa loro quartier generale, si è presentata dai soldati ucraini indicandogliela per farla saltare in aria, come si vede dalle immagini che ci fa vedere. “Capisci cosa intendo dire? Ha fatto radere al suolo casa sua, piuttosto che lasciargliela. Poi ha comunque dovuto spostarsi in un’altra città dell’Ucraina”.
Solo dopo aver sentito parlare gli altri interviene Sergej. “La guerra lasciamola fare a chi la sa fare, non serve altra carne da macello da mandare a morire. Oggi la guerra si fa con le tecnologie, con i droni. Anche loro, in Russia, hanno i loro problemi. Che gli creiamo noi ogni giorno. Fino a quando continueremo ad ammazzarci però non lo so. Ma fino a quel giorno io continuerò a fare quello che devo fare. Poi una volta finita, perché finirà di certo, continueremo a odiarci, ma almeno vivremo in pace”.