Il ritorno dell’uragano Donald Trump alla Casa Bianca o l’ascesa di Kamala Harris come prima donna presidente degli Usa pone la Cina davanti a una moltitudine di aspettative e incertezze. Il 5 e il 6 novembre i leader di ogni paese avranno gli occhi puntati su Washington, tra cui il presidente cinese Xi Jinping
L’esito delle elezioni più importanti dell’anno è atteso anche da Pechino. Il ritorno dell’uragano Donald Trump alla Casa Bianca o l’ascesa di Kamala Harris come prima donna presidente degli Usa pone la Cina davanti a una moltitudine di aspettative e incertezze.
Pechino non si sottrarrà al dialogo con chiunque assumerà l’incarico, tenendo bene a mente che la candidata dem e il rivale repubblicano sono in disaccordo su tutto: sanità, immigrazione, Medio Oriente, guerra in Ucraina e diritti civili. Ma su un punto, pur non ammettendolo esplicitamente, i due aspiranti presidenti hanno una visione comune: i dazi verso la Cina e la difesa dell’economia statunitense dai prodotti cinesi alimentati a colpi di sussidi statali.
L’ossessione per i dazi
Pechino, che ha posto l’economia in cima alla sua agenda politica, teme un nuovo inasprimento della guerra commerciale. La Cina sta lottando contro i consumi interni lenti, una crisi persistente nel settore immobiliare e un debito pubblico alle stelle, tutti fattori che minacciano l’obiettivo di crescita ufficiale di Pechino del 5 per cento per il 2024.
E le promesse elettorali di Trump non lasciano ben sperare la dirigenza cinese. Il tycoon aveva avviato contro Pechino una trade war nel 2018, con l’obiettivo di salvare posti di lavoro degli americani e azzerare il deficit commerciale tra i due paesi: l’amministrazione Trump aveva imposto dazi tra il 7 e il 40 per cento su diversi prodotti (parti elettroniche, prodotti in acciaio e alluminio, meccanica strumentale) che arrivarono a coinvolgere 300 miliardi di acquisti americani dalla Cina. Diversi studi hanno però dimostrato che la guerra dei dazi tra le due superpotenze economiche non ha portato alcun vantaggio per i consumatori di entrambi i paesi, che invece si sono visti aumentare i prezzi dei prodotti sia al consumo che all’ingrosso.
“America first” è stato lo slogan espresso più volte anche in questa tornata elettorale da Trump, che ha promesso di imporre una tariffa del 60 per cento su tutte le importazioni dalla Cina. In caso di applicazione del dazio si registrerebbero effetti importanti: secondo una rivelazione Bloomberg, il volume degli scambi tra Cina e Stati Uniti si azzererebbe entro due anni. Inoltre, una tariffa generalizzata del 20 per cento combinata con un dazio del 60 per cento sui prodotti made in China costerebbe a una famiglia statunitense con reddito medio oltre 2.600 dollari annui, secondo uno studio del Peterson Institute of International Economics (schema sottostante).
Il tycoon tuttavia tira dritto e propone quindi una misura che potrebbe non incontrare molte difficoltà. Anche perché il candidato repubblicano alla Casa Bianca ha lasciato quest’enorme e influente eredità politica all’attuale presidente Joe Biden che, nel corso della sua amministrazione, non ha fatto altro che rafforzare la guerra commerciale con la Cina, arrivando a colpire le produzioni del gigante asiatico persino in altri paesi come Messico e Vietnam. Biden è andato anche oltre e ha aumentato dal 25 al 100 per cento i dazi sulle auto elettriche cinesi, e poi dal 7,5 al 25 per cento quelli sui prodotti in acciaio e alluminio, e ha raddoppiato al 50 per cento le tariffe per celle solari e microprocessori (compresi quelli delle batterie).
L’attuale presidente ha inoltre voluto colpire il comparto della produzione dei chip cinesi: con il Chips and Science Act ha introdotto nuovi paletti sui semiconduttori avanzati che le aziende americane possono vendere al gigante asiatico con l’obiettivo, secondo Biden, di limitare l’accesso e lo sviluppo di tecnologie di ultima generazione sia militari che di spionaggio da parte dell’esercito cinese. In questo modo, è diventato più difficile per colossi come Nvidia e Intel vendere i loro attuali prodotti in Cina o introdurne dei nuovi per aggirare le regole. I due candidati alla Casa Bianca la pensano diversamente sulla misura voluta da Biden. Trump ritiene che il Chips Act sia “pessimo”, mentre Harris lo considera fondamentale per l’occupazione e la vittoria sulla Cina.
In vista di una probabile introduzione del dazio del 60 per cento, la dirigenza cinese potrebbe quindi considerare Harris un male minore, anche per la sua maggiore prevedibilità rispetto a Trump e per la sua premessa di continuità con l’amministrazione di precedente (di cui faceva parte).
La sicurezza e la questione di Taiwan
C’è lo scontro sulla sicurezza e potenza diplomatica cinese. Ai due candidati alla Casa Bianca non sarà sfuggito il punto di vista della leadership cinese, che si può riassumere con un aforisma di Xi Jinping: si sta assistendo alla “ascesa dell’Oriente e il declino dell’Occidente” in un periodo di grandi cambiamenti storici come “non si vedevano da 100 anni”. Queste parole riflettono l’idea del leader cinese, che ha articolato una visione propria dell’ordine internazionale e alternativa a quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea, proponendo la Cina come leader del “Sud Globale”. E per raggiungere tale obiettivo, Pechino ha bisogno di vedere sempre più paesi rientrare nella sua orbita.
La preoccupazione degli Stati Uniti per la minaccia alla propria sicurezza nazionale ha spinto Biden a rafforzare durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca un sistema di alleanze per contrastare l’assertività militare e diplomatica della Cina, come il lancio dell’AUKUS, ovvero il patto di sicurezza che attualmente vede protagonisti Stati Uniti, Regno Unito e Australia per lo sviluppo congiunto di sottomarini a propulsione nucleare da schierare nel Pacifico meridionale; il rafforzamento della strategia militare con le Filippine e con il Giappone e il miglioramento del rapporto con il Vietnam in materia di difesa e sicurezza. In ottica di continuità con l’amministrazione Biden, c’è da attendersi che Harris, in caso di vittoria, prosegua la strada tracciata dal suo predecessore.
Trump, durante il suo mandato, si era invece sfilato dalle alleanze storiche. In campagna elettorale ha minacciato un disimpegno degli Stati Uniti in Giappone (dove sono presenti oltre 50mila soldati americani) e un “abbandono” militare di Taiwan. Gli Stati Uniti mantengono legami ufficiali con Pechino nell’ambito della sua politica di “una sola Cina”, ma restano anche il più importante sostenitore internazionale di Taipei. Washington è tenuta per legge a fornire armi all’isola rivendicata dalla Cina. Ma ha comunque generato sorpresa – e qualche preoccupazione – quando in diverse occasioni Biden ha affermato che gli Stati Uniti difenderanno militarmente Taiwan in caso di attacco cinese, arrivando persino a rompere la nota posizione di ambiguità strategica. Harris non si è distanziata molto da Biden, dichiarando un “impegno per la sicurezza e la prosperità per tutte le nazioni”.
Ben distante la posizione del suo sfidante, che nutre una stima nei confronti di Xi. In campagna elettorale, Trump ha ammonito Taiwan sostenendo che in cambio della tutela difensiva Washington “non riceve nulla” da Taipei. Poi è passato all’attacco dei colossi taiwanesi dei microchip, come TSMC, che avrebbero sottratto “il business dei chip” agli Stati Uniti.
E cosa pensa invece la popolazione cinese?
Durante la campagna elettorale americana, i media statali di Pechino hanno puntato l’attenzione sulla discordia sociale e sulla polarizzazione negli Stati Uniti. Nel rafforzare questa narrativa, alcuni blogger nazionalisti hanno pubblicato video e post sui social media in cui enfatizzano la possibilità di una “guerra civile” americana post-elettorale, soprattutto in caso di vittoria della candidata dem.
Sia Harris che Trump sono stati al centro dei dibattiti sulle piattaforme dei social media cinesi. La gran parte della popolazione cinese sostiene il candidato repubblicano alla Casa Bianca per il suo carisma e la sua determinazione e, soprattutto, perché ha mantenuto un approccio più disinteressato per le tematiche dei diritti umani e per i dossier caldi come Taiwan. La democratica Harris, invece, è poco conosciuta al popolo cinese che ha, quindi, un’idea poco chiara di chi potrebbe essere la prima donna presidente degli Stati Uniti. C’è chi invece non si aspetta un cambiamento radicale: entrambi i candidati, secondo molti commentatori sul web, faranno di tutto per contenere la Cina. Che è lo stesso timore che aleggia nei corridoi della Grande Sala del Popolo di Pechino.