In caso di vittoria di Kamala Harris, l’ex presidente ha già detto che contesterà il risultato denunciando gli “imbrogli”. Il piano per fermare la macchina elettorale statunitense è pronto e i governatori blindano i seggi contro potenziali disordini e violenze: gli scenari
Con l’avvicinarsi delle elezioni statunitensi cresce l’attenzione sulla corsa alla Casa Bianca, tra ultimi sondaggi e timori di disordini in caso di sconfitta di Donald Trump. L’ex presidente lo ha detto più volte: Kamala Harris può vincere solo “imbrogliando”, e per questo lui non accetterà il risultato delle elezioni. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, Trump ha molto insistito su frodi e complotti ai suoi danni che gli impediranno di diventare presidente per la seconda volta. Il Partito Repubblicano ha già un piano in caso di sconfitta da mettere in atto negli stati con centinaia di migliaia di “volontari” pronti all’azione. Visti i precedenti, ci sono timori di disordini, violenze, con l’ombra di un nuovo “6 gennaio” sotto forme differenti.
Il piano di Trump in caso di sconfitta alle elezioni
Durante un comizio in Pennsylvania, stato decisivo per la vittoria finale, Trump ha detto che “non avrebbe dovuto lasciare” la Casa Bianca alla fine del suo mandato, nonostante la vittoria alle scorse elezioni di Joe Biden. Ora vorrebbe fare lo stesso, non accettando una potenziale vittoria di Kamala Harris.
Nel 2020, Trump si proclamò vincitore alle prime ore del mattino seguente l’election day. Poi, accuse di frodi elettorali e pressioni diffuse culminarono nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Nel 2024 potrebbe succedere di nuovo anche se lo scenario è cambiato e ora i repubblicani hanno un piano.
Il partito ha in programma di schierare 230.000 volontari, tra cui molti avvocati, specie negli stati in bilico in cui si deciderà l’elezione per monitorare le presunte frodi. Sono state già presentate decine di denunce che accusano la presenza di immigrati irregolari nelle liste elettorali senza avere la cittadinanza, un tema su cui Trump insiste da tempo insieme all’Heritage Foundation, l’organizzazione che ha stilato il famoso “Project 2025”.
La complessità delle leggi elettorali statunitensi non aiuta: le procedure di conteggio dei voti differiscono tra gli stati, perfino tra le contee confinanti, e i risultati non arriveranno in contemporanea. Per di più, oltre 70 milioni di cittadini statunitensi hanno già espresso la loro preferenza grazie al voto anticipato e nonostante ci siano stati più cittadini registrati al partito repubblicano rispetto al passato, sono già state avanzate numerose accuse di frode nel voto per corrispondenza, tutte rigettate.
La sfida dei funzionari che non certificano il voto: cosa può succedere
Ogni stato ha le proprie procedure elettorali ma, in generale, dopo il conteggio dei voti i funzionari di circa 3.000 contee “certificano” i voti. Il lavoro dei certificatori consiste nell’assicurarsi che il conteggio sia stato matematicamente corretto e non gli è consentito bloccare il processo. Come riporta il Financial Times, citando l’organizzazione no profit “Citizens for Responsibility and Ethics”, ci sarebbero funzionari pronti a fermare tutto nelle contee di stati chiave come Pennsylvania, Georgia e Arizona.
I funzionari che si rifiutano di certificare possono essere rimossi o addirittura perseguiti penalmente. In ogni caso, i candidati possono contestare i risultati delle certificazioni in tribunale. È difficile che si riesca così a bloccare il processo elettorale ma l’atmosfera di tensione potrebbe portare a disordini ai seggi. D’altronde, ci sono già stati degli attentati incendiari alle urne che contenevano le schede elettorali del voto anticipato e centinaia sono state distrutte.
Il quotidiano statunitense Politico ha provato a immaginare uno scenario simile: uno stato chiave impiega diversi giorni per completare lo spoglio. Harris supera Trump di qualche migliaio di voti, apparentemente aggiudicandosi le elezioni. Trump poi inonda lo stato di pubblicità che esortano i funzionari a “fermare il furto”, istigando proteste fuori dalle strutture di spoglio. Nel mentre, gli alleati di Trump si opporrebbero alla certificazione.
Il rischio disordini e di un nuovo 6 gennaio: lo scenario
Ci sono delle differenze col 2020. Questa volta Trump non ha i poteri da presidente che gli hanno permesso di fare pressioni e di ritardare le contromisure per evitare l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. In più, ci sono nuove leggi statali e federali che proteggono le elezioni da influenze esterne di questo tipo, con le centinaia di condanne e incarcerazioni a chi è stato coinvolto nell’assalto che possono fungere da deterrente.
Tuttavia, Trump e i suoi alleati hanno pronte le basi per gridare allo scandalo in caso di sconfitta. Anche solo la possibilità di contestare la vittoria di Kamala Harris potrebbe avere conseguenze impreviste e portare a disordini e violenze, soprattutto ai seggi, come riporta Reuters citando il think tank “People For the American Way”. Potrebbero anche verificarsi violente manifestazioni nelle capitali degli stati chiave.
Sono già state prese delle precauzioni: come riporta il Washington Post, le autorità locali hanno aumentato la sicurezza dei siti elettorali con cecchini, pulsanti di allarme per gli operatori elettorali e droni che sorvegliano la situazione dall’alto. Almeno due stati, Nevada e Washington, hanno attivato la Guardia nazionale: sarà pronta in caso di disordini.
L’alto grado di incertezza del risultato, i potenziali appelli sui social di Trump e il clima di sfiducia nelle istituzioni rendono lo scenario imprevedibile e aumentano le incognite, con una certezza: le elezioni negli Stati Uniti non finiranno il 5 novembre.