“Così l’Italia spalanca le porte Ue alla Cina”: il ‘tradimento’ di Meloni sulle pale eoliche

13.08.2024
"Così l'Italia spalanca le porte Ue alla Cina": il 'tradimento' di Meloni sulle pale eoliche
"Così l'Italia spalanca le porte Ue alla Cina": il 'tradimento' di Meloni sulle pale eoliche

L’industria europea contro l’accordo tra Roma e Pechino per la produzione di turbine. E Bruxelles potrebbe intervenire

La battaglia sovranista contro la Cina si ferma alle turbine eoliche. Dopo essersi distinto in questi anni a Bruxelles per la difesa delle auto (a benzina) europee dalla concorrenza delle elettriche di Pechino, il governo di Giorgia Meloni si trova adesso nel mirino delle polemiche per aver ‘tradito’ l’industria Ue aprendo la porta alle pale eoliche made in China. Almeno questa è l’accusa mossa dalle imprese europee del settore dopo la firma dell’accordo sottoscritto la scorsa settimana dall’Italia con Ming Yang, gigante cinese delle turbine.

L’accordo, promosso dal ministro dell’Industria Adolfo Russo (che in precedenza ne aveva sottoscritto uno simile sui pannelli solari), coinvolge la società energetica italiana Renexia e prevede un investimento di circa 500 milioni di euro per la realizzazione di uno stabilimento di produzione di turbine eoliche, secondo quanto reso noto dal nostro governo. “Questo importante accordo ci consente di sviluppare la produzione di turbine in Italia e una filiera nazionale che sarà estremamente competitiva”, ha affermato il ministro Urso. Non è ancora chiaro il ruolo esatto che avranno il governo di Pechino e Ming Yang nell’intesa, ma è chiaro che per il produttore cinese l’Italia potrebbe essere il trampolino di lancio per allargare i suoi affari in Europa e superare una serie di limiti, a partire dal trasporto delle pale dalla Cina all’Ue. Ecco perché l’industria europea ha duramente criticato Meloni.

A differenza di quanto avvenuto con i pannelli solari, sulla produzione di pale eoliche le imprese europee hanno finora tenuto testa ai concorrenti cinesi: siamo leader mondiali nella produzione di turbine, tanto da esportarle anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La crisi energetica, con i conseguenti aumenti inflazionistici, e una serie di fattori (tra cui anche una serie di investimenti sbagliati da parte di giganti di casa come la tedesca Siemens e la danese Vestas) hanno messo a rischio questa leadership. Non a caso, lo scorso settembre Wind Europe (la lobby Ue dell’industria eolica) ha lanciato un appello alla Commissione europea (accolto a stretto giro dalla presidente Ursula von der Leyen) affinché porti avanti un piano per rilanciare la filiera, tanto più in un momento in cui i governi Ue stanno rimettendo mano ai loro portafogli per creare maxi impianti eolici offshore. 

Un business su cui ora potrebbe allungare le mani Ming Yang grazie al “cavallo di Troia” dell’accordo con l’Italia. “È difficile conciliare questo accordo con l’obiettivo dell’Ue di mantenere la leadership tecnologica nel settore dell’energia eolica e di rafforzare la filiera europea dell’energia eolica”, ha detto Christoph Zipf di Wind Europe al quotidiano specializzato EnergyWatch. Secondo Zipf, l’intesa tra il governo Meloni e Ming Yang potrebbe venire stoppata da Bruxelles: “La Commissione Ue vorrà probabilmente esaminare l’accordo nel contesto del regolamento Ue sulle sovvenzioni estere. Gli investimenti manifatturieri rientrano nell’ambito del regolamento”, ricorda Wind Europe. Una posizione condivisa dall’associazione industriale danese Green power Denmark. 

In altre parole, secondo le imprese europee del settore, il patto Italia-Cina sulle turbine eoliche va contro le norme Ue che servono a proteggere l’industria di casa, in quanto Ming Yang farebbe concorrenza sleale grazie ai lauti aiuti di Stato di Pechino. È la stessa critica che il governo Meloni ha mosso in questi anni a Bruxelles, rea di non aver alzato un muro contro le auto cinesi, almeno fino a questo inizio estate, quando la Commissione ha elevato pesanti dazi sull’import di vetture elettriche dalla Cina. Adesso, a spalancare la porta all’invasione di prodotti manifatturieri di Pechino rischia di essere proprio l’Italia. 

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