Riflessioni sul Rapporto tra Capitalismo e Democrazia
Nei recenti dibattiti riguardanti la transizione ecologica e la riconfigurazione dei settori industriali, emerge una narrazione inquietante: si sostiene che il capitalismo si stia “separando” dalla democrazia e dalle sue regole fondamentali. Secondo alcune interpretazioni, sarebbe in atto una frattura strutturale tra il mercato libero e le normative statali esistenti. In questo contesto, la concorrenza viene vista come un ostacolo poiché, secondo questa logica, premia eccessivamente i consumatori a discapito degli investimenti. Tale avversione verso i controlli legali viene interpretata come un gesto di coraggio politico e imprenditoriale. Così, il mercato, un tempo considerato un pilastro del pensiero liberale e delle democrazie rappresentative, ora appare obsoleto o addirittura superfluo. Si argomenta, inoltre, sul cambiamento nelle attitudini verso la sostenibilità e un uso eccessivo del Golden Power per proteggere situazioni che rifiutano il confronto con la realtà del mercato stesso, riporta Attuale.
Queste affermazioni, però, sembrano avere una visione limitata: ignorano il contesto nel quale si stanno sviluppando tali deviazioni, poiché è indiscutibile che attualmente ci troviamo di fronte a una certa degenerazione in corso. Nonostante ciò, i difensori di questa posizione non sembrano prendersi in considerazione il fatto che tali deviazioni potrebbero essere il risultato di condizioni esterne. Un esempio chiaro è fornito da Assonime, l’associazione delle società quotate, la quale non esita a dichiarare che «in Italia la regolamentazione supera le direttive europee ed è diventata un ostacolo alla crescita dei mercati pubblici», aggiungendo che «il peso burocratico e amministrativo per le società quotate è aumentato in modo significativo, triplicando dal 1998». Pertanto, è comprensibile che Assonime richieda una deregulation sostanziale se si desidera realmente promuovere un mercato unico dei capitali in Europa.
Si può concludere che il capitalismo non sta scappando dalle regole, ma piuttosto le sta cercando e pretende che siano coerenti con la realtà economica, piuttosto che imposte da ansie moralistiche o da burocrazie inadeguate. La vera tensione non è tra economia e legge, ma piuttosto tra una visione flessibile e intelligente della regolazione e una rigidità normativa che spesso si maschera da virtù ecologica o etica, ma finisce per soffocare le imprese, l’innovazione e persino la transizione green. Questa transizione rappresenta senza dubbio una delle sfide più grandi del nostro tempo, ma gli strumenti operativi attuali – tra vincoli ambientali, obiettivi energetici eccessivi e piani centralizzati – stanno rapidamente trasformando questa opportunità in una vera e propria gabbia. L’ideale ecologista si è strutturato in normative, rendendo il principio di precauzione un ostacolo alla produzione.
In tale contesto, è naturale che il capitale, in particolare quello privato, mostrino segni di insofferenza. Non perché desiderino libertà assoluta, ma perché è chiaro che senza capitale non c’è sviluppo, e senza normative compatibili con la crescita non potrà esserci nemmeno transizione ecologica. Come sottolineava Joseph Schumpeter, «l’innovazione richiede ingenti investimenti iniziali; solo il capitale accumulato può supportarla». In altre parole, lo Stato da solo non è sufficiente. Oggi, gli Stati, oppressi da debiti e consensi fragili, non hanno le risorse per guidare autonomamente una trasformazione così profonda. Devono necessariamente contare sull’imprenditoria privata. Tuttavia, se questa è costretta a operare in un labirinto normativo che penalizza il rischio e soffoca il merito, è probabile che il sistema salti.
Una lezione che possiamo trarre dai fondatori del pensiero liberale è che Adam Smith non promuoveva un laissez-faire anarchico, ma invocava un ruolo dello Stato nel creare le giuste condizioni per il funzionamento del mercato: infrastrutture, giustizia e regole stabili. Smith ammoniva che «il grande nemico della prosperità pubblica è l’incertezza del diritto». Pertanto, non dovremmo affrontare comitati, cavilli e decreti settimanali. Allo stesso modo, Friedrich Hayek avvertiva del pericolo di una pianificazione centrale che si illude di sapere «ciò che è bene per tutti» e finisce per ostacolare l’auto-organizzazione del sistema. Infine, Luigi Einaudi osservava che «il compito di uno Stato centrale non è fare, ma far fare». È quindi comprensibile la critica a un governo che partecipa al capitale di una banca, come nel caso dell’11% di Banca Mps in mano al Tesoro, ma è altrettanto legittimo quel governo che ha contribuito al salvataggio della banca con 8,5 miliardi di euro di fondi pubblici, dei quali alla fine recupererà solo la metà. Fino a quando non verrà ceduta la quota residua, quel governo ha pertanto il diritto di esprimere un’opinione sui progetti dell’istituto.
Ritornando al tema principale, la vera frattura non risiede tra capitalismo e democrazia. Si presenta piuttosto tra coloro che vedono le regole come un mezzo per garantire libertà e quelli che le considerano un fine ideologico o uno strumento di potere tecnocratico. Non è sorprendente che le stesse voci che oggi lamentano la degenerazione del capitalismo italiano siano le stesse che in passato osannavano il mondo Mediobanca, un’istituzione che è l’antitesi del mercato e che ha fatto dell’esclusività la sua caratteristica distintiva.
Un’economia sostenibile, giusta e lungimirante ha bisogno di regole. Ma è essenziale che si tratti di regole giuste: semplici, stabili e coerenti con l’obiettivo prefissato. È fondamentale che non vengano elaborate da chi non ha esperienza con il rischio imprenditoriale o con il funzionamento della tecnologia. La convinzione che capitalismo e democrazia siano destinati a scontrarsi, senza eccezioni, rappresenta una narrazione pericolosa che rischia di delegittimare il mercato stesso e stimolare derivate populiste.