L’ex premier italiano: minacciati dai cambiamenti globali, non si può agire da soli
Nel suo rapporto sulla competitività, Mario Draghi proporrà «un cambiamento radicale» per l’Unione europea. E anche se «non possiamo permetterci il lusso di aspettare una modifica dei Trattati», l’ex presidente del Consiglio è convinto che l’Ue vada «ridefinita” con un’ambizione “non inferiore a quella che avevano i padri fondatori». Perché l’attuale organizzazione «è stata disegnata per il mondo di ieri, pre-Covid, pre-guerra in Ucraina e pre-crisi in Medio Oriente», mentre bisogna avere un’Ue «adatta al mondo di oggi e di domani».
Draghi ha svelato i contorni del suo lavoro, che sarà presentato alla fine di giugno, durante la conferenza sul pilastro europeo dei diritti sociali in corso a La Hulpe, poco fuori Bruxelles. Nel corso del suo intervento ha puntato il dito contro «la mancanza di strategia industriale» a livello europeo per colmare il divario con i principali competitor, Cina e Stati Uniti su tutti. Ha sottolineato che «il mondo sta cambiando rapidamente», alcuni attori globali «non rispettano più le regole» e tutto questo «ci ha preso di sorpresa».
L’ex numero uno della Bce ha portato ad esempio una serie di elementi che dimostrano la debolezza europea dovuta alla sua eccessiva frammentazione, ricordando per esempio che nel mercato delle telecomunicazioni esistono 34 operatori nazionali, mentre gli Usa ne hanno tre e la Cina quattro. Una caratteristica che non consente di fare progressi per esempio nel campo del 5G. Tutto questo perché l’Ue «non ha mai avuto la possibilità di stipulare un patto industriale equivalente a quello degli Stati Uniti», i quali da un lato «stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei suoi confini, compresa quella delle aziende europee» e dall’altro hanno adottato misure protezionistiche «per escludere i concorrenti e sfruttare il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere le catene di approvvigionamento».
Al tempo stesso c’è il tema degli oneri amministrativi «che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere: senza azioni politiche studiate e coordinate, è logico che alcune nostre industrie spegneranno le loro capacità e delocalizzeranno fuori dall’Ue». Così come quello dei vincoli legati alla transizione ecologica: «Abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa in Europa, con target rigidi per i mezzi elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse che ci servono, quest’agenda dev’essere combinata con un piano per garantire la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici, alle batterie, alle infrastrutture di ricarica».
C’è poi il problema degli investimenti («Noi investiamo meno di Stati Uniti e Cina nel digitale e nelle tecnologie avanzate, compresa la Difesa»). E qui l’ex premier ha ribadito la necessità di fare nuovo debito comune, ma ha ricordato che non basterà perché servono anche enormi risorse private. In Europa «ci sono molti risparmi», ma la mancanza di un mercato unico dei capitali fa sì che questi vengano «per lo più incanalati in depositi bancari e non finiscano per finanziare la crescita». Si è dunque unito al coro di chi chiede di finalizzare al più presto l’unione dei mercati di capitali e ha appoggiato la richiesta francese di procedere con un’integrazione tra i Paesi volontari. Pur sottolineando che «di regola l’Unione europea dovrebbe muoversi insieme, possibilmente sempre». Perché «non possiamo ripristinare la nostra competitività muovendoci da soli o gareggiando a vicenda», ma bisogna «agire come Unione europea come non abbiamo mai fatto prima».
Fonte: LaStampa