I giovani ortodossi estremisti delle colline vogliono espellere i palestinesi

03.07.2025 07:55
I giovani ortodossi estremisti delle colline vogliono espellere i palestinesi

COLONIA DI METZAD (CISGIORDANIA) – Un obiettivo fondamentale? «Eliminare le moschee della Roccia e Al Aqsa a Gerusalemme e costruire il Terzo Tempio ebraico, il quale duemila anni fa era ubicato dove ora le legioni romane di Tito lo distrussero. Solo così potremo garantire l’arrivo del Messia». E cosa fare con la popolazione palestinese di Cisgiordania e Gaza nel breve periodo? «L’eccidio di ebrei perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023 dimostra che non esiste alcuno spazio per compromessi politici. O noi, o loro. I milioni di palestinesi che occupano la nostra patria storica devono essere espulsi, devono andare via. I fatti indicano che non possiamo convivere nella stessa terra. Se non se ne vanno pacificamente, abbiamo il diritto di utilizzare la forza, incluso l’eliminazione totale». riporta Attuale.

I giovani uomini e ragazzi che abbiamo incontrato davanti alla yeshivah, la scuola religiosa, e alla sinagoga dell’insediamento di Metzad, situato sulle colline della Cisgiordania meridionale, esprimono idee simili. Arrivare qui è stato relativamente semplice: negli ultimi 10-15 anni, i governi israeliani, dominati dalla destra nazionalista del Likud di Benjamin Netanyahu, supportati da partiti religiosi sempre più influenti, hanno notevolmente aumentato lo sviluppo delle colonie ebraiche nei territori occupati della Cisgiordania, dal 1967 a oggi. Le terre agricole palestinesi sono state frazionate in un labirinto di strade e insediamenti ebraici, protetti da postazioni militari.

La strada che collega Gerusalemme a Hebron appare irriconoscibile rispetto ai tempi dei negoziati di Oslo nel 1993: i centri urbani palestinesi sembrano accerchiati, isolati e bloccati. Gli stessi coloni riconoscono che, dal 7 ottobre 2023, gli attacchi da parte della guerriglia palestinese, o anche solo dei giovani arabi esasperati che lanciano pietre contro le auto israeliane, sono quasi scomparsi. Oltre mille palestinesi della Cisgiordania sono stati uccisi da soldati e coloni negli ultimi venti mesi. «Con loro opera la legge della forza. Se spara, fuggono e noi dobbiamo difenderci», racconta Avraham, un diciassettenne di Gerusalemme che vive a Metzad da tre anni, mentre mostra le aree aride recentemente devastate da un incendio, presumibilmente provocato da bottiglie molotov lanciate da alcuni giovani palestinesi due giorni fa, dopo che l’esercito li ha costretti a evacuare.

Si percepisce subito l’ambiguità della coesistenza tra le forze armate e i coloni estremisti. Ufficialmente, i militari dovrebbero garantire la sicurezza degli ebrei, ma anche proteggere gli arabi da possibili violenze. Le notizie di tensione scoppiate venerdì a nord di Ramallah, nei pressi del villaggio arabo di Kfar Malik, rivelano conflitti tra i soldati e i giovani delle colline (No’ar HaGvaot in ebraico), i più radicali tra gli ortodossi determinati a cacciare tutti i palestinesi e ad appropriarsi di ogni appezzamento di terra. «Almeno otto ragazzi ebrei sono ora in carcere, uno di loro è stato probabilmente ferito da un colpo di un soldato mentre cercava di scacciare i palestinesi dalla cima di una collina», spiegano i portavoce dello stato maggiore a Tel Aviv. Tuttavia, la realtà vista direttamente sul campo è molto più complessa. Ytzhak, 22 anni, ci mostra le case abbandonate a qualche centinaio di metri dai recinti esterni di Metzad e racconta come i coloni abbiano già ribattezzato il villaggio arabo di Jorat al Khill in Kol Yakov. «Vedi? Un anno fa siamo riusciti a cacciare gli arabi che ci minacciavano. Essi, spaventati da ciò che accadeva a Gaza, si sono ritirati verso Hebron; ora stiamo gradualmente riappropriandoci delle loro case, che in verità sono sempre state nostre per volere divino, così recita la legge ebraica. I soldati lasciano correre le cose. È ovvio che chiudono un occhio e la nostra presenza è utile per loro», dichiara.

Ytzhak proviene da una famiglia religiosa di Gerusalemme; lui e suo padre sono stati educati secondo gli insegnamenti di Abraham Isaac Kook, un famoso rabbino vegetariano ortodosso che negli anni Trenta fornì una base teologica al sionismo prevalentemente laico e socialista fra i fondatori dello Stato ebraico. Mostra le povere abitazioni agricole dei palestinesi distrutte, i loro campi abbandonati, e indica con entusiasmo le tende dei giovani delle colline, che, con famiglie al seguito, si sono trasferiti tra ulivi secolari e terrazzamenti per proteggere le terre recentemente «ebraizzate». E commenta: «Pochi di noi credono che lo Stato di Israele rappresenti solo la difesa degli ebrei contro l’antisemitismo o come risposta a Hitler. No, siamo qui perché Dio lo vuole; questa è la terra degli ebrei, che dovrebbe comprendere anche il sud del Libano fino a Sidone, la Siria e buona parte della Giordania». Rifiutare questo punto di vista è praticamente impossibile, soprattutto quando gli studenti della scuola religiosa escono dalle aule per unirsi a lui. «I palestinesi potrebbero vivere tranquillamente in Sudan, o venirvi a trovare in Italia. L’ex premier laburista Ytzhak Rabin era un illuso a credere nel compromesso sul territorio. Per fortuna, ora abbiamo di nuovo Netanyahu, che dopo l’attacco all’Iran ha riacquistato più popolarità che mai», affermano in coro. Ma anche Netanyahu avrà certamente commesso errori, giusto? La risposta è glaciale: «Sì. Dopo il 7 ottobre, avrebbe dovuto dire alla popolazione di Gaza: avete una settimana di tempo per andarvene. Dopo, bombarderemo ovunque senza sosta, e non resterà nessuno vivo».

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