«Non uccideteli, però sparategli nelle gambe». Questa affermazione del presidente del Kenya, William Ruto, provoca un certo stupore. Apparentemente nemmeno Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine, era così “misericordioso”. Da circa un anno, il Kenya, che si definisce il paese più moderno e democratico dell’Africa orientale, è teatro di proteste contro le forze dell’ordine e il governo. Solo lunedì scorso, almeno 31 civili hanno perso la vita, tra cui tre adolescenti di diciassette anni e una ragazza di 12, colpita da un proiettile vagante a Kiambu, vicino alla capitale. Le Nazioni Unite e le ONG hanno accusato la polizia di uso eccessivo della forza. In questo contesto, il presidente, al potere a Nairobi dal 2022, difende la condotta delle forze dell’ordine: «Coloro che commettono atti di vandalismo o danneggiano la proprietà devono affrontare le conseguenze. Sparategli nelle gambe, portateli all’ospedale e poi in tribunale. Non devono morire, ma assicuratevi che siano inabili». Riporta Attuale.
È importante considerare che in alcuni casi le manifestazioni possono degenerare in saccheggi e attacchi ai negozi. Tuttavia, ciò rappresenta solo una piccola parte di un quadro più ampio, contraddistinto da violenze perpetrate dalle forze di sicurezza. La vera questione è il malessere diffuso, alimentato dalla povertà, dalla corruzione e dalle disuguaglianze, che il governo keniano sembra incapace o non disposto ad affrontare.
Il lunedì ieri ha coinciso con il ricordo del Sette-Sette 1990, quando i cittadini keniani scesero in piazza per reclamare il ritorno a una democrazia multipartitica, dopo anni di un governo autocratico sotto Daniel arap Moi. Questo evento ha rappresentato sia un’opportunità di protesta che di repressione. Il bilancio finale è tragico: 31 morti, 107 feriti e oltre 500 arresti. Ruto e la sua maggioranza accusano i partiti di opposizione di fomentare le manifestazioni per destabilizzare il governo. L’anno scorso, migliaia di persone si opposero a una legge che incrementava le tasse sulle piccole imprese di commercio informale, che sostengono milioni di lavoratori. Ruto, inizialmente autoritario, ha poi ritirato il provvedimento e rimosso diversi ministri per cercare di mantenere la sua posizione.
Il malessere sociale nel Kenya rimane profondo. Le forze dell’ordine hanno dimostrato una brutalità preoccupante. Un mese fa, Albert Ojwang, un insegnante di trent’anni, è stato arrestato a Homa Bay per aver criticato un funzionario di sicurezza sui social media, e il giorno successivo il padre ha ricevuto la chiamata per recuperare il suo corpo: gli agenti sostenevano che si fosse suicidato. In realtà, era stato assassinato. Da allora, due agenti sono stati arrestati, provocando un’onda di indignazione, e un agente ha addirittura dichiarato di aver ricevuto ordini da un superiore, senza che questi venisse mai accusato.
Durante le recenti manifestazioni del Saba-Saba 2025, il volto sorridente di Albert Ojwang è diventato simbolo della lotta per i diritti della Generazione Z in Kenya. Davanti all’intensificarsi delle violenze, il presidente Ruto sembra avere scelto la sua posizione: le sue dichiarazioni recenti non lasciano spazio alla riconciliazione. «Non uccideteli, gambizzateli e poi portateli in galera passando per l’ospedale».
Ruto, quasi dieci anni fa, tirò un sospiro di sollievo quando la Corte Penale Internazionale ritirò il procedimento contro di lui senza assolverlo. Insieme all’allora presidente Kenyatta, era stato accusato di aver orchestrato violenze etniche che provocarono oltre mille morti dopo le contestate elezioni del 2007. Entrambi scampati alla giustizia poiché molti testimoni ritirarono le accuse, probabilmente sotto pressione e minaccia.