«Illustre Maestro: Le scrivo per inviarLe il mio augurio in occasione del Suo settantatreesimo compleanno e per unire la mia voce al coro di auguri che Le giungono da tutto il mondo». Sono parole di un James Joyce diciannovenne, scritte nel marzo del 1901, e indirizzate a Henrik Ibsen. Del grande artista norvegese, l’irlandese aveva scritto in un lunghissimo articolo pubblicato dalla Fortnightly Review l’anno precedente, mettendo in dialogo un’opera come Casa di bambola e l’ultimo dramma di Ibsen, Quando noi morti ci risvegliamo, del 1899.
L’ATTENZIONE di Joyce per le date era maniacale. Volle che il suo Ulisse uscisse il giorno del suo compleanno, e giocava spesso con corrispondenze di questo tipo nell’intreccio tra vita e opera. Chissà se nell’essersi ricordato del compleanno di Ibsen non abbia sospettato una simile alchimia anche nel rapporto che aveva il norvegese con il suo passato e i suoi fantasmi.
DI QUESTO INTRECCIO tra vita vissuta e ricreazione artistica si occupa un recentissimo libro dell’anglista e comparatista Francesco Marroni, Henrik Ibsen e la spettralizzazione del reale (Solfanelli editore, pp. 122, euro 10). È un’opera preziosa che ripropone sapientemente il tema dei temi, in letteratura e nell’arte tutta: il rapporto con l’esistenza. In un’era in cui ci si riempie la bocca dell’espressione «scrittura creativa» dimentichiamo troppo spesso che i grandi autori non inventavano quasi niente. Joyce stesso amava ricordare di non essere una persona creativa, ma di scrivere di tutto quel che vedeva, che gli capitava. Anche casualmente.
Ibsen, nella sua parabola, rievoca spettri del proprio passato in maniera obliqua, opaca. Anche in mancanza di riferimenti diretti, punta spesso a far rivivere temi chiave della sua vita andata, persino segreti oscuri. Tra questi, i fantasmi «evocati dalla condizione di figlio illegittimo e dalla bancarotta familiare, con l’improvvisa transizione dal benessere alla miseria». Sono due temi spiega Marroni, «che avranno un’incidenza notevole sulla sua immaginazione di uomo di teatro».
Il primo, di cui sentiamo la sonora eco proprio ne Gli spettri, è riconducibile a una questione che lo studioso ricostruisce assai bene: quella del figlio avuto dal drammaturgo con Else Sophie, una serva della casa dei Reimann nella cui farmacia Ibsen faceva l’apprendista.
Hans nacque il 9 ottobre del 1846, casualmente data importante anche per Joyce: fu il primo giorno del suo esilio volontario dall’Irlanda con la compagna Nora, in quanto partirono dall’Irlanda l’8 ottobre del 1904.
DOPO AVER ANNUNCIATO a Henrik di essere incinta, Else «si rivolse all’autorità giudiziaria per avere dal padre biologico un sostegno finanziario» e dopo due mesi il giudice di pace convocò Ibsen per confermare o meno la paternità e l’impegno a mantenere il bambino. Ibsen ammise di essere il padre ma comunicò la impossibilità a provvedere alle spese per il figlio.
L’autorità giudiziaria, tuttavia, gli recapitò «l’ingiunzione di contribuire al mantenimento del figlio fino al compimento del quindicesimo anno di età, versando le somme spettanti con cadenza trimestrale». Senza i mezzi economici per assolvere a quest’obbligo, si aprirono per Ibsen le porte della prigione e fu costretto a «compiere ’lavori forzati’ corrispondenti alla somma dovuta».
Da queste drammatiche vicissitudini giovanili, il drammaturgo fu segnato in vario modo, e il libro di Marroni riesce in maniera convincente, e con eleganza critica, a ricucire i percorsi di una storia che lega in modo indissolubile la vita e le opere.
LO STESSO AVVIENE, nel testo, per il trattamento dell’esilio volontario di Ibsen lontano dalla Norvegia, con particolare attenzione ad alcune tappe italiane come Casamicciola di Ischia, Roma, e alcune cittadine dei castelli romani. È un altro tratto, questo, che illumina le connessioni tra Ibsen e il suo ideale discepolo James Joyce, anche lui fortemente influenzato dall’esilio e dalle esperienze italiane.
Nella sua recensione, Joyce affermò: «quando l’arte del drammaturgo è perfetta, quella del critico è superflua» perché «la vita non deve essere messa sotto esame, va affrontata e vissuta». Quasi a suggerire il legame intimo tra opera ed esperienza, ma mettendo sul piano di preminenza la prima. Oscar Wilde parlava della superiorità dell’arte rispetto alla vita, e forse questo vale anche per Ibsen. Grande emancipatore, eretico picconatore della piccola borghesia del suo paese, quando nella vita dovette confrontarsi con i suoi spettri, spesso fallì.
Racconta Marroni dell’incontro tardivo tra Henrik e il figlio abbandonato Hans. Tornato in patria, Ibsen era accerchiato da fama e denaro, e Hans, dedito all’alcool, lo andò a trovare, ma solo per tornare indietro con in mano il misero bottino di cinque corone: «’Questo è quanto diedi a tua madre. Dovrebbe essere abbastanza anche per te’». Hans, certamente ferito, non si fece più vedere.
Joyce vedeva nell’arte di Ibsen un furente eroismo. Nella lettera di auguri gli scrisse di quanto lo «ispirassero le Sue battaglie – non le evidenti battaglie materiali ma quelle che venivano combattute e vinte dietro la Sua fronte». Il libro di Marroni ci aiuta a capire che il sommo Ibsen, se declinato non più in chiave solamente artistica, fu certamente il grande drammaturgo del suo tempo, ma fu anche «l’uomo della vita mancata, delle scelte non fatte».