Oggi le lezioni sono riprese a Tripoli, via lo stato d’emergenza, dopo che la «situazione è tornata alla normalità»: lo ha confermato il ministero della Difesa già ieri mattina, annunciando che «l’operazione militare» si era «conclusa con successo». Ma questo non vuol dire che la Libia sia davvero un Paese sicuro. L’assassinio di Abdel Ghani al-Kikli, meglio noto come Gheniwa, dimostra che il Paese nordafricano è ancora preda delle milizie armate, collegate a vario titolo ai centri del potere istituzionale con cui dialoga – e fa accordi – la comunità internazionale.
Lo testimonia la morte di Gheniwa, lunedì sera. Disponibile sui social network anche una foto, a riprova di quella che assumerà i toni dell’esecuzione: il corpo del militare riverso a terra, supino, il volto coperto di sangue. E poi la pistola adagiata accanto alla mano destra – e non in pugno. Gheniwa era a capo di uno dei gruppi armati più potenti di Tripoli, la Stability Support Authority (Ssa), istituita nel 2021 a protezione dei funzionari e dei palazzi del Governo di Unità nazionale (Gnu) di Tripoli, riconosciuto dall’Onu. Ma non fu un corpo di sicurezza costituito per l’occasione: come denunciò tra gli altri Amnesty International, il Gnu «promosse» una milizia che per oltre un decennio (dall’inizio della guerra civile del 2011, scoppiata dopo l’uccisione di Mohammar Al-Gheddafi) aveva «terrorizzato la popolazione del quartiere tripolino di Abu Salim mediante sparizioni forzate, torture, uccisioni e altri crimini di diritto internazionale».
Proprio nell’area di Abu Salim si sono concentrati gli scontri di lunedì, come riporta la testata Libya Observer, secondo cui l’Ssa ha dovuto vedersela con la Forza congiunta di Misurata, la 444sima e l’111sima Brigata di combattimento, e la Western Directorate Support Force, il corpo di polizia tripolino specializzato in operazioni anti-terrorismo. Dopo l’uccisione di Al-Kikli, il governo ha annunciato lo smantellamento dell’Ssa e il pieno controllo della sua “roccaforte” nei quartieri Abu Salim. Di «importante risultato» ha parlato il premier Abdulhamid Dbeibah: «Un passo decisivo verso la fine dei gruppi armati irregolari». Nessuna dichiarazione ufficiale sul motivo degli scontri.
Gira voce che Gheniwa sia stato attirato verso una riunione con alti funzionari del Gnu e quindi ucciso, mentre militari e mezzi pesanti circondavano le postazioni dell’Ssa. Lotfy Al-Harari, capo della potente Agenzia per la Sicurezza Interna, uomo vicinissimo a Gheniwa, risulta scomparso da lunedì e pare sia stato preso dalle milizie affiliate al Gnu. All’origine dell’operazione, la necessità di frenare la crescente influenza di Al-Kikli nel settore delle telecomunicazioni. Ma per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, «sembra un regolamento di conti tra milizie. Gheniwa prendeva soldi dal ministero dell’Interno, fino a 40 milioni di euro solo nel 2023, che però ad Amnesty disse di non averlo sotto il suo controllo. Insomma, è il tipico caso del signore della guerra che diventa istituzione. Nel 2022 chiedemmo alle autorità libiche di destituire sia lui che Al-Harari, a sua volta colpito da accuse di abusi e torture. Non ci hanno risposto».
Immediata la reazione della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), che ha invocato la de-escalation. Ma il Paese non sembra trovare una via d’uscita all’instabilità. La prospettiva di elezioni generali capaci di ricomporre il Paese, spaccato in est e ovest anche a livello di organi istituzionali, si allontana sempre di più. Un report Onu di dicembre suona l’allarme sul rafforzamento delle milizie a partire dal «contrabbando sistematico di petrolio», così come il traffico di armi o esseri umani dai confini sud, con Niger e Ciad. In questo è particolarmente affermato il figlio del generale e “signore della Cirenaica” Khalifa Haftar, Saddam.
Oggi l’Unsmil è dovuta intervenire anche per plaudire alla visita del Procuratore generale libico a Bengasi, che indaga sulla scomparsa di Ibrahim Al-Darsi, membro della Camera dei rappresentanti libica, scomparso un anno fa: aveva criticato lo strapotere di Saddam Haftar nell’est.