La dodicenne Rahaf Ayad è così malnutrita che riesce a malapena a parlare. I capelli le stanno cadendo. Le sue costole sporgono. Riesce a malapena a muovere gli arti. Sbatte gli occhi lentamente, con le palpebre pesanti. Originaria di Al-Shuja’iya, nella parte orientale della città di Gaza, Rahaf vive ora con i suoi sette familiari in un’unica stanza nella casa di un parente nel quartiere Al-Rimal della città.
Shurooq, la madre di Rahaf, spiega che la salute della figlia ha iniziato a deteriorarsi rapidamente a causa della mancanza di cibo. «Se qualcuno la tocca o prova a muovere le braccia o le gambe, grida di dolore – racconta a +972 – Dice che le sembra che il suo corpo stia bruciando dall’interno. Chiede pollo, carne o uova, ma nei mercati non c’è nulla».
SHUROOQ e suo marito Rani, 45 anni, sono andati da una clinica all’altra in cerca di cure, integratori o solo consigli, ma il sistema sanitario di Gaza, devastato, ha offerto poco aiuto. «I medici ci hanno detto che ci sono centinaia di bambini come Rahaf e che l’unica cosa che può salvarli è un’alimentazione adeguata. Le ho comprato delle vitamine in una farmacia, ma quando sono tornata a comprarne altre una settimana dopo, erano finite».
I fratelli di Rahaf aiutano a prendersi cura di lei: le danno da mangiare, le fanno il bagno, la portano in bagno e le cambiano i vestiti. Quando il cibo è disponibile, la famiglia mette al primo posto i suoi bisogni. «Mangiamo solo dopo che lei ha mangiato – dice Shurooq – Quando abbiamo soldi, compriamo tutto quello che chiede. Ma ora non c’è nulla e quando troviamo qualcosa, non possiamo permettercelo».
Anche quando Shurooq riesce a trovare e a preparare alcuni dei pochi prodotti di base ancora disponibili a Gaza, come riso, lenticchie o pasta, Rahaf chiede a gran voce pollo, carne o uova, qualsiasi cosa che contenga le proteine di cui il suo corpo ha disperatamente bisogno. Alla fine, la fame vince e lei mangia qualsiasi cosa sia disponibile. «Le dico che il confine si aprirà presto e le porterò tutto quello che vuole – dice Shurooq, trattenendo le lacrime – La salute di Rahaf crolla ogni giorno. Sta morendo davanti ai miei occhi e non possiamo fare nulla».
Rahaf ama la lingua inglese. Un tempo sognava di studiare inglese all’università e di diventare insegnante. Ma la sua vita, come quella di centinaia di migliaia di bambini di Gaza, è stata distrutta dalla guerra di Israele. «Vorrei che i miei capelli tornassero – sussurra Rahaf – Voglio camminare e giocare con i miei fratelli come facevo prima».
Da più di due mesi Israele impedisce l’ingresso nella Striscia di Gaza di cibo, beni e forniture mediche. Le conseguenze sono catastrofiche: secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza, oltre 70mila bambini sono ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta e 1,1 milioni non hanno il fabbisogno nutrizionale minimo giornaliero per la sopravvivenza.
IL MINISTERO della salute palestinese a Gaza ha riferito che, al 5 maggio, almeno 57 bambini sono morti per complicazioni sanitarie legate alla malnutrizione dall’inizio della guerra e altri 3.500 sotto i cinque anni rischiano di morire di fame. «Nelle ultime due settimane, la carestia si è intensificata in modo significativo – dichiara a +972 il dottor Ahmed Al Faraa, direttore del dipartimento di maternità e pediatria dell’ospedale Nasser – In questo periodo, abbiamo curato circa 10 bambini affetti da malnutrizione molto grave».
La dottoressa Ahed Khalaf, specialista in pediatria al Nasser, ha detto recentemente ad Al Jazeera di non aver mai visto casi così gravi di malnutrizione nei bambini: «Soffrono di avvelenamento del sangue, insufficienza d’organo, danni al fegato e ai reni, infezioni batteriche e microbiche e indebolimento del sistema immunitario».
Poco dopo che il 16 aprile il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato che «al momento non è previsto l’ingresso di alcun aiuto umanitario a Gaza», i distributori di cibo locali e internazionali, un tempo un’ancora di salvezza per centinaia di migliaia di persone, hanno iniziato a chiudere uno dopo l’altro. Il 25 aprile il Programma alimentare mondiale ha annunciato di aver esaurito le scorte di cibo rimaste. Il 7 maggio la World Central Kitchen ha annunciato di «non avere più le scorte per cucinare i pasti o cuocere il pane a Gaza».
«L’assedio su Gaza è un assassino silenzioso di bambini e anziani – ha dichiarato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, in un incontro con la stampa, il 29 aprile – Abbiamo poco più di 5mila camion con forniture salvavita che sono pronti ad arrivare. Questa decisione (di non farli entrare) minaccia la vita e la sopravvivenza dei civili di Gaza, che sono anche sottoposti a pesanti bombardamenti giorno dopo giorno».
Ibrahim Badawi, 38 anni, ha bisogno di almeno quattro chili di farina al giorno per sfamare la sua famiglia di nove persone. In questi giorni, fatica a trovarne anche un solo chilo: «Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dare loro. A volte vorrei che io e i miei figli morissimo insieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia».
BADAWI, sfollato da Beit Hanoun, nel nord di Gaza, vive in un rifugio di fortuna fatto di teloni e coperte sulla costa di Gaza City. Da quando Israele ha infranto il cessate il fuoco a marzo, Badawi non ha ricevuto un solo pacco di cibo. Lui e sua moglie, insieme al figlio maggiore Mustafa, 15 anni, si sono abituati ad andare a letto affamati per permettere ai bambini più piccoli di mangiare le piccole porzioni di riso o lenticchie che ricevono occasionalmente dalla cucina della comunità. «Il più piccolo, Abdullah, che ha quattro anni, piange per la fame, dicendo che gli fa male lo stomaco. Mento e gli dico che presto porterò della farina, così potrà dormire», si lamenta Badawi.
Ma anche se la farina fosse disponibile, Badawi non potrebbe permettersela. Fino alla fine di marzo, la maggior parte dei gazawi è sopravvissuta grazie a scorte di pane e prodotti in scatola, mentre i prezzi salivano. Ma poi la crisi si è aggravata: quando tutti i 26 panifici del Programma alimentare mondiale hanno chiuso per la carenza di farina e carburante, la farina bianca è diventata incredibilmente costosa. Un sacco da 25 chili, che prima della guerra costava 30 shekel (8,30 dollari), ora costa l’incredibile cifra di 1.500 (416 dollari).
«Ho preso in prestito denaro da vicini e amici molte volte per comprare la farina – dice Badawi – Ma ora tutti quelli che conosco sono al verde. I miei figli soffrono di coliche e indigestione. Se questa carestia continua, moriremo tutti di fame».
Hadia Radi, 42 anni, madre di sei figli, vive con la sua famiglia in una tenda di fortuna in Al-Wihda Street, a Gaza City. Come innumerevoli altre famiglie dell’enclave, da mesi affrontano fame e bombardamenti. Il 15 aprile un attacco aereo israeliano ha colpito a pochi metri dalla loro tenda, ferendo diversi membri della famiglia, tra cui Yamen, il figlio di 7 anni di Hadia, la cui gamba è stata rotta dalle schegge. Ora in cura nell’ospedale da campo Al-Saraya della Mezzaluna Rossa, il recupero di Yamen è complicato da una grave malnutrizione. «Ha perso 10 chili in due mesi – dice Radi a +972 – Dall’inizio del blocco non abbiamo mangiato altro che riso. Senza un’alimentazione adeguata, le nostre ferite non guariranno».
IL CIBO è ormai così scarso che anche i piccoli atti di gentilezza possono essere rischiosi. Di recente un vicino ha sentito Yamen piangere al telefono dalla tenda dell’ospedale, implorando la madre di avere del pane. La mattina dopo ha portato alla famiglia dieci pezzi di pane, nascosti in un sacchetto nero per non attirare occhi affamati. Radi ha nascosto il pane nella tenda come un tesoro: «Ogni giorno ne mandavo un pezzo a Yamen. Anche i suoi fratelli piangevano per averne un po’, ma io dicevo loro che i feriti dovevano venire prima».
Yamen continua a chiedere alla madre di fargli visita, ma Radi è bloccata dalle ferite riportate nell’esplosione: una gamba rotta che la lascia dipendente dalle stampelle. È altrettanto impotente nel raggiungere sua figlia Hannan, di 13 anni, curata nei reparti sovraffollati dell’ospedale Al-Shifa.
Hannan è stata colpita da schegge (ha perso un occhio) che l’hanno resa incapace di camminare. La mancanza di cibo ha reso estremamente difficile il recupero. «Ha bisogno di verdure, cibo sano e cure speciali per guarire – spiega Radi – Ma qui non c’è accesso a nulla di tutto ciò». Radi ritiene che Israele stia affamando Gaza per fare pressione su Hamas, ma dice che sono le famiglie normali a pagarne il prezzo: «Stiamo vedendo i nostri figli appassire e né Israele, né Hamas, né il mondo se ne preoccupano. Perché i miei figli dovrebbero morire di fame? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Se non potete fermare la guerra, almeno aprite le frontiere. Non lasciateci morire di fame».
Anche Heba Malahi, 41 anni, vive in una tenda di fortuna in Al-Wihda Street a Gaza City da quando un attacco aereo israeliano ha distrutto la sua casa a Juhor ad-Dik nel 2023. Ora lei e suo marito Ribhi, 45 anni, saltano regolarmente i pasti per permettere ai loro sette figli di mangiare. Mahmoud, il figlio di sei anni della coppia, soffre di grave malnutrizione. «È sempre stanco. Non mangia, le ossa gli fanno male e i denti stanno iniziando a cadere – racconta Heba a +972 – La settimana scorsa ha chiesto l’elemosina per dei pomodori. Abbiamo venduto il nostro ultimo cibo in scatola solo per comprarne un chilo, lo abbiamo condiviso come unico pasto».
LA FIGLIA Ruba, 17 anni, desidera disperatamente cibi semplici come le patate, ma a 60 shekel al chilo sono praticamente irraggiungibili. «Netanyahu ci punisce solo per il fatto di esistere – dice Heba – Forse qualcuno come Trump potrebbe costringerlo ad aprire le frontiere prima che moriamo tutti di fame. Se la gente immaginasse i propri figli in questo stato, forse agirebbe.
Più a sud, a Khan Younis, Mona Al-Raqab è seduta con suo figlio Osama di cinque anni da oltre una settimana nel Nasser Medical Complex. Attualmente pesa solo nove chili. Sfollato più volte dall’inizio della guerra, con poco cibo e acqua pulita, il suo sistema digestivo ha quasi ceduto. «I medici cercano di nutrirlo – dice Al-Raqab – ma un bambino che cresce ha bisogno di cibo vero, di diversi tipi».
Qualche stanza più in là, Nagia Al-Najjar, 30 anni, veglia sul suo bambino Yousef, di cinque mesi, gravemente malnutrito, nella sua culla. Gli altri quattro figli sono rimasti con il padre nella loro tenda nel villaggio di Abasan, dopo che la loro casa nel quartiere Bani Suhaila di Khan Younis è stata distrutta. L’ospedale fatica a fornire latte artificiale in mezzo alla chiusura delle frontiere. «Non posso allattare perché mangio a malapena – dice Al-Najjar a +972 – Non riesco a trovare le parole per esprimere come mi sento come madre».
Il dottor Al Faraa ha spiegato che la mancanza di cibo ha causato aborti spontanei e neonati pericolosamente sottopeso con gravi deformazioni. Le famiglie ora macinano la pasta – o anche il riso e le lenticchie – per ottenere una farina di fortuna. «Non importa se io ho fame – dice Al-Najjar – Ma cosa hanno fatto i miei figli per meritarselo?».