Oscar 2025, la parola d’ordine è: niente politica

04.03.2025
Oscar 2025, la parola d'ordine è: niente politica
Oscar 2025, la parola d'ordine è: niente politica

Alla fine è andato quasi tutto come era previsto, ma quella degli Oscar 2025 è stata quantomeno un’edizione con la percezione che gli eventi potessero disattendere quelle previsioni. Cosa non da poco considerato come sono andati gli anni, in cui tutto, ma davvero tutto, sembrava seguire un copione indirizzato su binari dove, per il colpo di scena, non c’era spazio alcuno – l’ultimo, forse, quello extra-artistico del già ipernarrato e mitologico schiaffo di Will Smith nel 2022. A condurre le danze il piglio frizzante di Conan O’Brien, che azzecca monologo d’apertura, siparietti durante lo show e qualche sporadica stilettata. Ci prova insomma con tutte le carte a disposizione e può comunque fino a un certo punto contro la lunghezza di una serata che non riesce a esimersi da inevitabili tempi morti.

Il fu Emilia Pérez

La verve della premiazione è allora maturata grazie alla complicità dell’altissima qualità dei film presenti quest’anno nelle varie categorie, ma sicuramente anche a causa delle numerose polemiche che hanno accompagnato le settimane e i mesi in avvicinamento all’evento del 2 marzo al Dolby Theatre di Los Angeles. Tra queste, a scombinare di più le carte sono state indubbiamente le querelle attorno ad Emilia Pérez di Jacques Audiard, il film con il maggior numero di candidature, ben 13.

Ha tenuto banco il caso Karla Sofia Gascón sì, Karla Sofia Gascón no, l’attrice protagonista finita al centro del vortice di polemiche per colpa di alcuni suoi vecchi e controversi tweet, scaricata addirittura da Netflix per la campagna Oscar e in dubbio fino all’ultimo per la partecipazione all’evento. Candidata come miglior attrice protagonista, alla fine Gascón era presente in sala, in sostanza relegata da una parte e intercettata solo dalle battute di O’Brien, che ha smorzato con il migliore e cinico umorismo possibile. Emilia Pérez si è dovuto però accontentare di appena due statuette: quella alla Miglior attrice non protagonista per Zoe Saldana, sacrosanto (ma che nel discorso, generico, ha ignorato Gascón), e quello per la miglior canzone, El Mal. Quest’ultimo, non senza ironica beffa, anche unico Oscar portato a casa personalmente da Audiard, che risulta come paroliere al fianco di Clément Ducol e Camille.

Alcune sorprese e niente politica

A proposito di musica, a sorprendere in negativo si sono rivelati i fiacchi momenti canori collocati lungo le quasi quattro ore dell’evento, sembrati da subito abbastanza slegati e non organici all’andamento del programma. A partire dall’esibizione congiunta di Ariana Grande e Cynthia Erivo in apertura di cerimonia con la loro tanto attesa, ma abbastanza sciupata, Defying Gravity tratta da Wicked di Jon M. Chu, film con 10 candidature e accontentatosi infine solo di miglior costumi e scenografia. Sempre meglio della bocca asciutta di A Complete Unknown, 9 candidature, a cui non basta un Timothée Chalamet spesosi in tutte le maniere possibili durante la campagna promozionale e autocandidatosi, in barba alla falsa modestia, a diventare “uno dei grandi”.

La categoria per la quale invece all’origine più quotato era proprio Emilia Pérez, miglior film internazionale, se l’è aggiudicata il candidato brasiliano I’m Still Here, il racconto in memoria storica dritto ed efficace di Walter Salles, con protagonista Fernanda Torres. Nello stesso gruppo di nomination era presente anche Flow, l’opera animata e sostanzialmente muta di Gints Zilbalodis, che ha vinto però come miglior film d’animazione contro giganti più considerati come Il robot selvaggio, consacrandosi come prima pellicola lettone di sempre a vincere un premio Oscar.

Per chi si aspettava poi dalla serata la risposta del mondo del cinema statunitense all’amministrazione Trump, la Hollywood più patinata si è fissata i pollici. La politica è sembrata a dire il vero restare fuori dalla lista del giorno degli artisti, fedeli nei loro discorsi alla parola d’ordine “neutralità”. Perlomeno fino a quando nella categoria del Miglior documentario è stato premiato il documentario No Other Land del collettivo formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal. Una vittoria molto importante per un film che parla e denuncia con forza l’occupazione israeliana nei territori della Cisgiordania, già vincitore (con polemiche) al Festival di Berlino 2024 e che fino a questo momento non è riuscito ad ottenere una distribuzione nazionale negli Stati Uniti, fatto che rende ancora più eccezionale il suo successo.

Gli sconfitti e il trionfo di Anora

Dopo la mancata entrata in shortlist di Vermiglio di Maura Delpero, un pizzico d’Italia c’è comunque stato con Isabella Rossellini – vestita con un abito in velluto blu in dichiarato omaggio al recentemente scomparso David Lynch –, candidata come miglior attrice non protagonista per Conclave. Ma anche con Alba Rorhwacher, tra le presentatrici per la Miglior fotografia, riconoscimento che si è aggiudicato meritatamente Lol Crawley per il lavoro certosino in pellicola 70mm per il fluviale The Brutalist. Questo di Brady Corbet, altro film con 10 candidature, è forse quello a cui stringe di più il limitato numero di Oscar ottenuti. Oltre alla fotografia, anche la Miglior colonna sonora a Daniel Blumberg e il Miglior attore protagonista ad Adrien Brody, che torna a vincerlo dopo esserselo aggiudicato, da più giovane di sempre, nel 2003 con Il pianista di Roman Polanski. Nulla, insomma, nelle mani del regista Brady Corbet che aveva vinto al Festival di Venezia 2024.

Colpa, o merito, del trionfo assoluto di Anora, l’opera indipendente tra commedia e dramma scritta e diretta da Sean Baker. Appena 6 milioni di dollari di budget, 5 Oscar conquistati su 6 candidature, è la celebrazione di un’idea ben specifica di fare cinema ancor prima del fare bene quel cinema, cosa che a Baker è a dire il vero sempre riuscita in vent’anni di carriera e che oggi l’industria hollywoodiana riconosce apertamente. L’autore si è infatti aggiudicato i premi alla miglior regia, alla miglior sceneggiatura originale, al miglior montaggio e il prestigiosissimo miglior film. Quattro in una sola serata. Il solo e unico precedente? Walt Disney nel 1953, ma con un documentario e tre cortometraggi.

Sempre per Anora la miglior attrice è invece Mikey Madison, classe 1999 coronata per la sua performance intensa ed estroversa, ma anche profondamente tragica, nei panni della sex worker Ani. Una vittoria che è forse l’unica a sorprendere realmente, a discapito di sicuro dell’altra forte contendente, Demi Moore per The Substance di Coralie Fargeat. Quest’ultima che, dopo aver ottenuto per la sua interpretazione a cuore aperto il Golden Globe, si è vista soffiare il premio proprio da un’attrice più giovane, prestante e amata dai riflettori.

E non era proprio di questo che parlava The Substance? That’s showbiz, baby. Dove insomma in fondo nulla cambia, anche quando sembra che possa cambiare.

Adrien Brody, vincitore per The Brutalist
Adrien Brody, vincitore per The Brutalist

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Trump si assicura la produzione di chip in vista di un'invasione cinese di Taiwan
Previous Story

Trump si assicura la produzione di chip in vista di un’invasione cinese di Taiwan

Trump invoca "legge e ordine" per il "nuovo sogno americano": "Zelensky pronto a trattare, a noi Panama e Groenlandia"
Next Story

Trump invoca “legge e ordine” per il “nuovo sogno americano”: “Zelensky pronto a trattare, a noi Panama e Groenlandia”