
Redazione Interno – Il 23 maggio 1992, alle 17:58, un boato squarciò l’autostrada A29, poco prima dello svincolo di Capaci. Cinquecento chili di tritolo, nascosti in un tunnel scavato sotto l’asfalto, esplosero al passaggio della scorta che accompagnava Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Fu Cosa nostra a pianificare quell’attentato, uno dei più efferati della storia repubblicana, con l’obiettivo di colpire chi, come Falcone, aveva sfidato la criminalità organizzata senza mai arretrare di un passo.
Oggi, a Palermo, i resti della Fiat Croma sulla quale viaggiava il magistrato sono esposti al museo del Presente di palazzo Jung, spazio dedicato alla memoria di Falcone e Paolo Borsellino, ucciso pochi mesi dopo in via D’Amelio. Quella carcassa sventrata, simbolo di una ferita ancora aperta, è diventata un monito per chi crede che la lotta alla mafia non sia un capitolo chiuso.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito la strage «una delle ferite più profonde della nostra storia», sottolineando l’importanza di coinvolgere i giovani per costruire «un futuro libero dalle mafie». Parole che risuonano con forza nella piazza del Palazzo di giustizia, dove tremila studenti hanno partecipato all’iniziativa “Tribunale chiama scuola”. Giuseppe Tango, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati a Palermo, ha citato lo scrittore GesualdoBufalino: «La mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari», estendendo il concetto a tutti coloro che hanno il compito di educare le nuove generazioni.
Dal canto suo, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito l’impegno del governo «in prima linea contro la criminalità, senza compromessi». Un messaggio che, se da un lato evoca la retorica della fermezza, dall’altro non può prescindere dalla consapevolezza che la mafia, mutando forme e strategie, resta una minaccia concreta.