Dopo la Brexit, l’addio all’Ue è sparito dai programmi elettorali dei partiti europei

10.05.2024
Dopo la Brexit, l'addio all'Ue è sparito dai programmi elettorali dei partiti europei
Dopo la Brexit, l'addio all'Ue è sparito dai programmi elettorali dei partiti europei

La propaganda euroscettica ha conosciuto il suo apice dieci anni fa, ma ora si è ampiamente sgonfiata. Oggi le destre del Vecchio continente hanno scelto nuove battaglie

Alla fine, un esito positivo per l’Ue la Brexit l’ha prodotto. Non in termini economici forse, ma politici. Da quando si è realizzata, infatti, l’ipotesi (o la minaccia) dell’uscita di un altro Paese membro dal club europeo (o dalla moneta unica) è diventata sempre meno attraente per gli elettori del blocco, al punto che ormai sono rimasti pochi i partiti che ancora includono nei propri programmi questi obiettivi.

L’attuale vicepremier e segretario federale della Lega Matteo Salvini era solito indossare una maglietta con la scritta “Basta €uro” sul palco dei suoi comizi. Era il 2014, e lo slogan contro la moneta unica campeggiava insieme alla silhouette di Alberto da Giussano sul logo del Carroccio, che all’epoca si chiamava ancora Lega Nord, durante la campagna elettorale (chiamata eloquentemente “Basta euro tour”) per eleggere l’ottava legislatura del Parlamento europeo.

In quegli anni, anche Fratelli d’Italia sosteneva le medesime posizioni circa l’uscita del Belpaese dall’Ue (o quantomeno dall’eurozona), condividendo questa battaglia anche con il Movimento 5 stelle delle origini, che si presentava al pubblico come una forza antisistema e che a Strasburgo finì poi per dividere gli stessi banchi dell’Ukip britannico di Nigel Farage, “padre nobile” della Brexit. 

Eppure, dopo che Londra è effettivamente uscita dall’Unione in seguito al referendum del giugno 2016, dalla retorica ufficiale di tutti questi partiti sono stati espunti i riferimenti a quello che in gergo giornalistico si chiamava “Italexit”. Il fatto che, in controtendenza rispetto alle principali forze politiche nostrane, proprio con questo nome sia nata nel 2020 un’entità del tutto marginale per opera di Gianluigi Paragone (peraltro recentemente dimessosi da ogni incarico nel partito) è la proverbiale eccezione che conferma la regola: uscire dal club dei Ventisette (non quello di Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse) non è più “sexy” in termini elettorali. 

E non è affatto un’evoluzione solamente italiana. Dopo la faticosa uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il discorso di una rottura netta con le politiche del blocco, guidato principalmente dai partiti populisti e di estrema destra, è passato in secondo piano. Un’arma spuntata, insomma, o un cavallo di battaglia che non corre più come faceva (o sembrava fare) un tempo, superato in velocità da altri destrieri come quello dalla retorica anti-immigrazione. Del resto, l’ultima rilevazione dell’Eurobarometro ha mostrato che il 71% degli europei che ritiene che l’appartenenza all’Unione abbia portato benefici al proprio Paese. 

Una delle ragioni principali è probabilmente da ricercarsi nell’allontanarsi dei giorni più bui della drammatica crisi dell’euro del 2011-2015, quando si è iniziato a parlare di “Grexit” in riferimento all’uscita (o finanche l’espulsione) di Atene dall’eurozona (era il 2012) per evitare il collasso della moneta unica. E infatti, il successo di quella retorica populista ha conosciuto il suo apice proprio intorno alle europee di dieci anni fa: le prime dopo la crisi del debito sovrano, negli anni in cui sembrava che l’intera politica continentale fosse nelle mani della Bce e dei suoi oscuri funzionari. 

Si è poi moltiplicato l’uso di questo neologismo, declinato in quasi tutti gli Stati membri: dalla “Frexit” di Parigi alla “Dexit” di Berlino, passando per la “Polexit” di Varsavia e, appunto, l’Italexit di Roma. Finché a un certo punto Londra ha realmente preso la via dell’uscita, e tutti hanno visto il caos dell’economia britannica che ne è conseguito. 

Così, nota l’Afp in un’analisi sul tema, molti partiti di estrema destra hanno ammorbidito i toni incendiari e hanno abbandonato la retorica radicale dell’uscita dall’Ue. In Francia, né il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella né Reconquête di Éric Zemmour parlano più di Frexit, un tema che è rimasto appannaggio esclusivo di alcune frange estremiste ma con un bacino elettorale decisamente ristretto. Nei Paesi Bassi, il Pvv di Geert Wilders non menziona più un “referendum vincolante sulla Nexit” da quando, lo scorso novembre, ha vinto a sorpresa le elezioni politiche. Sulla “Fixit” di Helsinki è diminuito anche il rumore dei Finlandesi (il partito di destra radicale che fa parte della coalizione di governo), che peraltro hanno sostenuto l’adesione del Paese alla Nato. 

Persino il PiS polacco di Jaroslaw Kaczynski, che ha governato a Varsavia per otto anni, si è schernito additando come “false narrazioni” le voci per cui i suoi simpatizzanti avrebbero chiesto la Polexit dopo la sconfitta nelle urne dello scorso ottobre, che ha riportato al governo il premier europeista Donald Tusk. Anche l’Fpö austriaca, il partito populista attualmente in testa nei sondaggi per le europee, ha gradualmente abbandonato l’idea di una “Öxit”. L’unica formazione elettoralmente rilevante che parla ancora di Dexit è l’AfD tedesca: ripropone l’idea di un referendum popolare sull’appartenenza all’Ue, ma non è affatto scontato che, anche nel caso in cui questo partito di ultradestra arrivi al potere, organizzerebbe sul serio una consultazione popolare sul tema rischiando di essere sconfessato dai cittadini.

In altre parole, l’euroscetticismo tout court è ormai dismesso da quasi tutti i suoi sostenitori di un tempo, e oggi il successo politico della destra radicale europea non si misura più dal numero di Paesi a rischio di uscire dal blocco bensì dall’inasprimento delle politiche migratorie e dall’annacquamento delle ambizioni climatiche del Vecchio continente. 

La storia va avanti, insomma, e più passano gli anni meno appaiono realistiche le sirene euroscettiche che millantano di voler prendere a picconate un’Unione della quale i suoi Stati membri hanno semplicemente troppo interesse a rimanere parte. Piuttosto che minacciare di disintegrarla, le forze politiche che oggi si scontrano con gli alfieri dell’europeismo propongono di ripensare i meccanismi che regolano le deleghe della sovranità nazionale verso il centro: meno competenze a Bruxelles, più poteri alle cancellerie, per un’Europa delle nazioni che si oppone idealmente all’obiettivo federalista degli Stati Uniti d’Europa.

Fonte: Today

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