“Di fatto non decidiamo nulla” denuncia un onorevole a Today.it spiegando come il parlamento sia ridotto a “fastidioso passaggio burocratico per il governo”. Deputati e senatori si limitano ad approvare le leggi dell’esecutivo e a iniziative di facciata. Così mentre i partiti discutono di premierato Giorgia Meloni gode già di “pieni poteri”
Senza neppure una modifica costituzionale il premierato è già qui: mentre i partiti di maggioranza e opposizione si scontrano sulla riforma Meloni che dovrebbe cambiare la fisionomia della Repubblica, il Parlamento è quasi esautorato delle sue funzioni e si limita a fare da passacarte ai provvedimenti del governo. Una sorta di “cerimoniale” per festival e ricorrenze o promotore di commissioni di inchiesta come quella sul Covid, utili solo a movimentare un po’ lo scontro politico senza aggiungere nulla al lavoro della magistratura ordinaria.
Sul ricorso alla fiducia Giorgia Meloni supera Mario Monti e Giuseppe Conte
Il governo Meloni per velocizzare l’approvazione delle misure ricorre continuamente al voto di fiducia, limitando quindi anche la possibilità di emendarle. Con i suoi 52 voti di fiducia l’attuale esecutivo primeggia nella classifica che mostra il rapporto tra ricorso al voto di fiducia e leggi approvate, con il 43,7 per cento.
Ha superato il governo Monti (42,5 per cento), il Conte II (39,8) e il governo Draghi (37,41), ma a differenza di questi ultimi gode di un’ampia e (teoricamente) coesa maggioranza nei due rami del Parlamento e non deve affrontare particolari emergenze (Monti arrivò con l’Italia a rischio default, Conte e Draghi dovettero gestire pandemia e post pandemia). Quella di “scavalcare” il Parlamento è quindi una brutta abitudine che non nasce in questa legislatura, ma che in questa legislatura si sta accentuando sempre più, malgrado una legge elettorale che consegna a chi governa numeri che gli consentirebbero di approvare le norme in tempi ragionevoli senza limitare un iter di approvazione che potrebbe persino migliorarle.
Per non parlare del fatto che il taglio degli eletti (230 deputati e 115 senatori in meno rispetto alle scorse legislature) avrebbe dovuto rendere più economico e più snello il Parlamento: così non è stato perché di fatto costringe deputati e senatori a dover presidiare più commissioni, che quindi non possono essere convocate in contemporanea e rallentano anche i lavori delle aule.
“Stiamo qui a fare dibattiti lunari”
Dall’inizio della legislatura, si legge nel rapporto del Centro Studi della Camera dei Deputati, le leggi di iniziativa parlamentare approvate sono appena 30. Tra queste spiccano quelle sull’istituzione del “Monteverdi Festival di Cremona”, del “Pistoia Blues Festival e Festival Internazionale Time in Jazz” e la “Promozione della conoscenza sulle foibe”, forse a fare da contraltare alle “Celebrazioni per il centesimo anniversario della morte di Giacomo Matteotti”. Per il resto le leggi ordinarie si limitano a iniziative bipartisan assai di facciata su “Contrasto del bullismo e del cyberbullismo”, “Tutela del diritto d’autore”, “Introduzione del reato di omicidio nautico”.
E poi le svariate commissioni di inchiesta, da quella già citata sul Covid 19 a quelle sui casi Orlandi e Gregori, sui fatti della comunità “Il Forteto”, sul ciclo dei rifiuti, sui fenomeni mafiosi e sui femminicidi. “La cosa più umiliante – spiega un deputato delle opposizioni in Transatlantico – è dover spiegare ai cittadini che ci votano sul territorio che stiamo qui a fare dibattiti lunari: ci accapigliamo sulla Palestina, su questioni di principio anche importanti, ma di fatto non decidiamo nulla. Il governo arriva con i provvedimenti e abbiamo pochi giorni per depositare centinaia di emendamenti in commissione, sapendo già che saranno tutti respinti in blocco. Di fatto siamo le rotelline di un enorme ingranaggio: un fastidioso passaggio burocratico per il governo”.
“La cosa più umiliante è dover spiegare ai cittadini che ci votano che siamo qui a fare dibattiti lunari: ci accapigliamo sulla Palestina, su questioni di principio anche importanti, ma di fatto non decidiamo nulla”
E sono diversi i parlamentari in questi mesi hanno sollevato pubblicamente il problema. L’ultimo è stato il deputato Pd Roberto Morassut, che durante la discussione a Montecitorio sulle modifiche al Codice Penale, ha sbottato: “Qui non stiamo in un posto dove si fanno dei pasticci alimentari: questo è il Parlamento italiano, che deve essere messo in condizioni di fare delle discussioni serie”.
“Noi ci apprestiamo, in questo scorcio di estate – ha continuato Morassut – a discutere undici decreti legge, in una situazione di stress del Parlamento che è inaccettabile. Non si può trattare il Parlamento italiano in questo modo, soffocando le opposizioni e gli uffici di quintali di carte su materie di grandissimo valore come l’edilizia, le infrastrutture e l’agricoltura. Il premierato non è stato ancora approvato”.
Un monocameralismo di fatto
Il paradosso è che alcune proposte di iniziativa parlamentare vengono di fatto “assorbite” dal governo che le fa sue, facendone ripartire l’iter da zero (voti in commissione, audizioni, ecc.). L’esempio più eclatante è quello della separazione delle carriere dei magistrati, materia su cui erano depositate le proposte di legge di Enrico Costa (Azione) e altri, divenuto un ddl a firma del ministro Carlo Nordio. Insomma, i due rami del Parlamento sono di fatto delle costose macchine obliteratrici: a fronte di stipendi che superano i diecimila euro lordi (calcolando indennità, diaria e benefit), deputati e senatori decidono poco o niente: gli stessi emendamenti presentati in aula e nelle commissioni (ad oggi poco più di 2.500, in linea con le precedenti legislature) sono solo in minima parte redatti dagli eletti: per la maggiore sono preparati da “eroici” dipendenti invisibili dei gruppi parlamentari che fanno delle vere e proprie corse contro il tempo per consegnarli entro le scadenze. L’immagine più evidente di questa “decadenza”, è la corsa degli eletti in Transatlantico allo squillare del “trillo” che annuncia l’inizio delle votazioni elettroniche in aula: chi non partecipa al 70 per cento di queste, subisce una decurtazione di 206 euro dalla diaria.
E sono saltati anche gli schemi: ormai i provvedimenti vengono inviati dal governo a una delle due camere che li studia e se possibile apporta (poche) modifiche, per poi essere vidimati dall’altra. Delle 119 leggi approvate dal Parlamento negli ultimi due anni, 110 sono passate in seconda lettura. In pratica gli emendamenti sono stati approvati solo alla Camera o solo al Senato e l’altra aula ha solo messo il “timbro”, senza apportare alcuna modifica. E se per i decreti legge (altra pratica abusata) la “corsa” è motivata dal limite dei 60 giorni per la conversione, non trova giustificazioni nel caso delle pdl di iniziativa del governo: su trentasei approvate, solo due hanno subito modifiche in seconda lettura. L’ultima legge di Bilancio è stata discussa per quasi un mese al Senato e per appena tre giorni alla Camera.
A cosa serve avere due rami del Parlamento?
In passato, il ricorso alla fiducia è stato spesso giustificato facendo leva sulla percezione dell’emergenza: il governo Monti, ad esempio, aveva fretta di risanare la voragine di bilancio lasciata da Berlusconi; il governo Conte II si è trovato in mezzo a una pandemia; il governo Draghi, che in sostanza era un “governo del presidente” sostenuto da quasi tutte le forze politiche, era nato proprio per mettere in riga i partiti. E se non c’erano emergenze, a giustificare la pratica c’era l’esigenza di velocizzare l’approvazione dei provvedimenti, come nel caso del “governo del fare” di berlusconiana memoria, o semplicemente di riuscire ad approvarli, come nel caso dei governi Prodi, che viste le risicate maggioranze che li sostenevano ricorrevano al voto di fiducia per mettere in riga i partiti. Oggi il voto di fiducia è praticamente una prassi e ci si chiede perché Giorgia Meloni abbia così fretta di mettere mano alla Costituzione per introdurre il “premierato”, dato che gode già di “pieni poteri”.