Dopo sei anni dagli accordi di Prespa, a Skopje sono tornati al potere i conservatori e i nazionalisti. E le primissime dichiarazioni della neo-eletta presidente hanno già infastidito Grecia e Bulgaria
Come si aspettavano gli osservatori, non si è dovuto attendere molto perché il nuovo corso politico della Macedonia del Nord portasse Skopje in rotta di collisione, almeno politica, con i suoi vicini balcanici, nonché futuri (potenziali) partner in Ue. A complicare il processo d’ingresso nel blocco, avviato nel 2004 e ripreso di recente con l’avvio dei negoziati di adesione, è di nuovo la questione relativa al nome del Paese, che i nazionalisti vorrebbero riportare a “Macedonia” senza l’indicazione “Nord”.
Durante la cerimonia di giuramento della neo-eletta presidente Gordana Siljanovska-Davkova, è scoppiato l’ennesimo caso diplomatico per un passaggio del suo discorso di insediamento tenutosi nel Parlamento nazionale domenica 12 maggio. Siljanovska-Davkova si è riferita al proprio Paese come “Macedonia” anziché “Macedonia del Nord”, il suo nome costituzionale adottato da Skopje con lo storico accordo di Prespa del 2018.
In quell’occasione, i negoziatori macedoni e greci avevano posto fine a una decennale disputa diplomatica tra i due Stati confinanti includendo appunto nel nome dell’ex repubblica iugoslava la specificazione geografica che serviva a distinguerla dalla regione omonima della Grecia. Questo aveva permesso allo Stato balcanico di entrare nella Nato nel 2020 grazie alla rimozione del veto di Atene. L’ultimo ostacolo per l’inizio dei negoziati di adesione all’Ue, cioè l’opposizione della Bulgaria, è infine venuta meno a luglio 2022 in seguito al riconoscimento da parte del Parlamento di Skopje della minoranza bulgara.
Ma ora questo percorso potrebbe essere interrotto. L’ambasciatrice greca in Macedonia del Nord, Sophia Philippidou, ha immediatamente abbandonato la cerimonia d’insediamento in segno di protesta contro le parole della presidente 71enne. Il ministero degli Esteri di Atene ha dichiarato che le parole pronunciate da Siljanovska-Davkova hanno violato i termini dell’accordo di Prespa, e che rischiano di mettere in discussione non solo le relazioni bilaterali tra i due Paesi ma le stesse prospettive di Skopje di aderire all’Ue. Una posizione, quella del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis, che mette d’accordo tutte le forze politiche in Grecia, inclusa l’opposizione della sinistra radicale di Syriza, la quale ha pure condannato l’accaduto.
Anche la presidente uscente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è affrettata a ribadire su X che “affinché la Macedonia del Nord continui il suo percorso di successo verso l’adesione all’Ue, è fondamentale che il Paese prosegua sulla strada delle riforme e del pieno rispetto degli accordi vincolanti, compreso l’accordo di Prespa”.
Ma come dicevamo non si è trattato di un fulmine a ciel sereno: Siljanovska-Davkova, la prima donna a ricoprire questa carica nella storia della nazione, proviene dalle fila del partito conservatore Vmro-Dpmne (che ha ottenuto oltre il 42% dei voti alle urne) e già nel 2019 aveva promesso che, se eletta presidente, avrebbe indetto un referendum per tornare al vecchio nome del Paese. Le elezioni (legislative e presidenziali insieme) tenutesi lo scorso 8 maggio hanno riconsegnato il potere ai conservatori e ai nazionalisti, chiudendo la parentesi di sette anni in cui il governo è stato nelle mani del partito socialdemocratico Sdsm, il quale aveva stipulato proprio gli accordi di Prespa. Il leader del Vmro-Dpmne, Hristijan Mickoski, ha sempre osteggiato quell’accordo e ha dichiarato in campagna elettorale che “per me la Macedonia è e rimarrà Macedonia”.
Ad ogni modo, i problemi di Skopje non riguardano solo Atene: anche la Bulgaria, come detto, ha contribuito a bloccare la candidatura nord-macedone al club europeo. Ma ora il Vmro-Dpmne ha detto chiaro e tondo che, pur sostenendo l’ingresso di Skopje in Ue, non intende piegarsi ai ricatti di Sofia circa ulteriori modifiche alla propria costituzione. La strada per l’allargamento del blocco nella regione dell’ex Jugoslavia appare dunque nuovamente in salita.