Le pagine dei giornali di questo Natale sprizzano Salvini da tutti i pori. Ma dopo l’assoluzione per il caso Open Arms, il ministro delle Infrastrutture, sembra aver perduto i freni inibitori che non erano il suo forte neanche prima, invero: così, prima lascia intendere che adesso è pronto a tornare a “occuparsi di sicurezza”, cioè a fare il ministro dell’Interno. Poi, rimbalzato da Meloni, Matteo si proietta nella funzione di improbabile king maker del direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, o in quella ancora più improbabile di sfidante in prima persona. Non che l’appuntamento con le urne milanesi sia poi così vicino: si voterà nel 2027, mancano insomma due anni abbondanti, ma è pur vero che tra un anno e mezzo inizierà la campagna elettorale e tutti vogliono farsi trovare pronti. Già, ma andiamo con ordine, dal grande al piccolo, dalla politica nazionale e internazionale, per arrivare poi alla questione-Milano.
La vicenda Open Arms
L’assoluzione per la vicenda Open Arms sembra avere restituito la piena agibilità politica a Salvini. Di sicuro gli ha tolto la spada di Damocle di un processo penale spinoso, una corona di accuse brutte da portarsi addosso. Non ha risolto, però, tutte le grane politiche che Matteo si porta dietro. Un conto è essere assolti in tribunale, altro è tornare centrali nell’agone della politica. Un conto è far parlare di sé, altro è essere padroni del proprio e altrui destino. La sguaiatezza e la fretta con la quale Salvini ha quasi rivendicato il proprio ritorno al Viminale, appena pronunciata la sentenza, è una bella sintesi di cosa la politica di oggi spesso è, e di cosa soprattutto non dovrebbe essere. Il destino personale di chi fa politica è naturalmente importante per i diretti interessati. Il disinteresse assoluto per il proprio percorso non esiste nemmeno per chi fa il missionario, figuriamoci per chi fa politica.
Però, insomma, una cura minima del bene comune, a cominciare di quello del proprio partito e della propria coalizione, dovrebbe avere una qualche importanza. Quindi, o Salvini può dire che Matteo Piantedosi è un pessimo ministro, e che nessuno può fare bene il ministro come ha saputo e saprebbe fare lui, e questo sarebbe grave, ma da prendere sul serio, oppure Salvini aveva voglia di far casino e di mettere in difficoltà alleati e colleghi di governo, forte di un’assoluzione da un processo che – sia detto per inciso – non è mai stato né un alibi né la vera ragione per la quale Meloni e Mattarella non lo hanno voluto nuovamente al ministero dell’Interno. Ovviamente, non entro nel merito del lavoro che sta svolgendo Piantedosi e che Meloni ha prontamente difeso, ma osservo con costernazione d’altri tempi il continuo decadere di ogni grammatica istituzionale. Ha fatto bene la premier a ricordargli che lui fa già un lavoro importante, il ministro del Ponte, hai detto niente. E fanno bene i suoi compagni di partito a ricordargli che sulle partite che più stanno a cuore a loro – la mitologica Autonomia – il piatto continua a piangere.
Sallusti sindaco?
Milano, dicevamo. Qui il discorso è diverso, e tutto politico. È ovviamente del tutto legittimo che un leader nazionale, di un partito con uno storico radicamento lombardo, e per di più essendo lui cittadino milanese, abbia l’interesse e il desiderio di dire la sua sul futuro della città in cui è nato e cresciuto, e dalla quale ha mosso i primi passi di uomo e di politico. La sua agitazione, tuttavia, è una buona occasione per fare un punto sulla politica milanese. Il centrosinistra si prepara al termine dell’esperienza di Sala sindaco con qualche incognita ma anche con qualche certezza. È vero, la città è sempre più costosa, difficile per i ceti medio-bassi, esclusiva, popolata di solitudine che diventano paure. Segue una traiettoria sua, che somiglia a quella di molte città “di successo” in questo tempo. Ne abbiamo parlato spesso, continueremo a farlo. Il centrosinistra, dal 2011 in poi, nel perimetro della città è sempre stato solidamente in maggioranza. Anche alle ultime elezioni, quando ormai imperversava una narrazione che sottolineava lo scollamento tra chi governa la città e la cittadinanza, il centrosinistra a Milano ha vinto. Ampiamente. In politica, come nella vita, mai nulla è acquisito per sempre. Ma certo, le cose raramente cambiano di colpo e senza che si lavori per cambiarle. Salvini, proprio nella sua città, è più debole che altrove. E sa anche lui che non è scontato che avrà un diritto di prelazione sul candidato o la candidata deputati alla sfida. Il centrosinistra sfoglia una rosa fatta di nomi di politici consolidati, forse un po’ usurati. E si tiene in tasca qualche carta più pesante, che se dovesse essere giocata renderebbe difficilmente contendibile per gli altri la preda. Sì, il nome di Mario Calabresi è il primo della lista, tra i candidati forti.
La possibilità di concorrere sul serio
E la destra? La destra milanese, in questi anni, ha fatto spesso polemica per la sicurezza e le piste ciclabili, ma poca politica sul territorio, in modo da consolidare consenso e figure. Non è un caso che l’ultima volta il candidato civico, Luca Bernardo, sia spuntato all’ultimo momento dopo una serie di “no grazie”. Non è un caso che stavolta nessuno dei nomi finora fatti in nome dell’usato sicuro – Lupi, Moratti – abbia raccolto esplicito entusiasmo da parte di nessuno, a cominciare dagli interessati. Non sarà un caso, infine, se il direttore del Giornale Sallusti, quando sarà il momento, valuterà con grande attenzione la possibilità di cambiare mestiere e vita, e solo dopo deciderà eventualmente di scendere in campo. Che garanzie vorrà? Non quella di vincere, certo, che non è mai data. Ma quella di potersi giocare davvero la partita, di avere qualche vera possibilità. Al momento, fosse domani, questa possibilità sarebbe molto remota, quasi una chimera. Se si creeranno spazi dipende da molti fattori. Salvini è solo uno di questi, sicuramente non il più importante.