L’affondo sulla laurea, così Meloni rilancia il conflitto fra élite e popolo

21.05.2024
L’affondo sulla laurea, così Meloni rilancia il conflitto fra élite e popolo
L’affondo sulla laurea, così Meloni rilancia il conflitto fra élite e popolo

Per il primo ministro esistono due mondi: uno di persone senza titoli e l’altro di chi, come Cottarelli, rivendica di essere chiamato «dottore»

Sostiene Giorgia Meloni che esistono due mondi. Uno è quello del senatore che dice “non chiamatemi per nome ma dottore, perché io sono laureato” (cit. Carlo Cottarelli). L’altro è quello di chi si è fermato alla scuola superiore: persone come lei, che non ha una laurea ma è arrivata a fare il presidente del Consiglio, “e vuol dire che puoi arrivare ovunque anche senza condizioni di partenza che qualcuno ha potuto avere”. Alto e basso, élite e popolo, ma forse inquadrare così il problema è un errore. Meloni, come altri bersagliati per carenza di titolo di studio – Teresa Bellanova con la sua storia di bracciante ma anche Andrea Orlando, Valeria Fedeli o e ovviamente Luigi Di Maio – è titolare di un cursus honorum novecentesco comune a molti politici, giornalisti, imprenditori, diventati eccellenze senza il “pezzo di carta” incorniciato nello studio. E tuttavia l’esaltazione di questa modalità extra-casta – la casta minoritaria di chi ha faticato sugli esami, sulla tesi, magari pure sulla specialistica – non si addice ai tempi e ai messaggi che dovrebbero mandare le istituzioni.

Il mondo dei “non-dottori” nell’Italia di oggi è un problema, non una risorsa. In percentuale l’Italia ha meno laureati giovani di Colombia e Costa Rica, mentre i laureati della fascia di età 25-64 anni sono il 20 per cento della popolazione, ben dodici punti al di sotto della media europea e quasi il venti per cento in meno di Germania e Spagna. Solo la metà dei nostri diplomati desidera proseguire gli studi universitari e l’ipotesi prevalente è che nei prossimi vent’anni i giovani disponibili a continuare la formazione dopo il diploma saranno sempre di meno. Magari è ancora vero che uno Steve Jobs può arrivare ovunque cominciando da un garage, o che una Meloni può scalare Palazzo Chigi partendo da una sede di partito, ma per lo più, nei grandi numeri chi è nato senza camicia finirà a friggere hamburger o a spazzare scale a quattro o cinque euro l’ora.

Nella fattispecie, è difficile tenere insieme la destra che ironizza sui dottori (mica solo la premier: il florilegio sui perditempo universitari è infinito) con quella che da mezzo secolo esalta le competenze e lancia invettive contro il lassismo educativo sessantottino, i disastri fatti dal ’68, le scuole del ’68 iconizzate dal surreale istituto sperimentale Marilyn Monroe di Nanni Moretti, dove la foto del presidente della Repubblica era sostituita da quella di Dino Zoff e i professori tenevano lezioni su Gino Paoli. Bisognerà decidere. Studiare è un valore oppure no? Le madri sbagliano a dire ai figli che un laureato vale più di un cantante (o di un influencer, o di un tiktoker)? Il curriculum conta oppure, come disse un antico ministro del Lavoro, “si creano più opportunità giocando a calcetto”?

Alto e basso, elite e popolo, persino destra e sinistra, alla fine rappresentano un conflitto immaginario e occasionale, la coda di un dibattito anacronistico che ignora gli attuali dati di realtà. Dati assai semplici: solo nel settore digitale e tecnologico mancano centomila professionisti, le aziende non li trovano, e in prospettiva quei posti d’oro se li prenderanno i laureati indiani o coreani. Già adesso assumiamo a centinaia medici cubani, professionisti della sanità ucraini, ingegneri rumeni. Le antiche domande (“un laureato vale più di un cantante?”) dovrebbero essere sostituite da dibattiti più aggiornati sul modo di spingere i ragazzi italiani verso la laurea e rendere desiderabile il tipo di carriera che possono garantire gli studi universitari.

Poi, certo, siamo in campagna elettorale e fa gioco accarezzare la distanza del popolo dai professoroni che parlano dai loro piedistalli accademici. Altri, in analoghe circostanze, hanno fatto pure peggio: resta negli annali l’invettiva del ministro Pd Giuliano Poletti contro i cervelli in fuga dall’Italia (“questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi”), memorabile esempio dei pasticci che può combinare la politica quando sceglie la chiave del populismo facile. Ma la lotta di classe tra chi ha studiato molto per farsi avanti e chi ci è riuscito per altre vie, anche no. Non ne abbiamo bisogno. Non onora ne’ la minoranza dei laureati ne’ la maggioranza dei non-laureati, che in genere si dannano per portare i loro figli dove loro non sono arrivati, al fatidico “pezzo di carta” e al titolo di dottore in qualcosa, sperando che serva a una vita più facile.

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