La premier rilancia un’alleanza europea con l’ultradestra: «Non do patenti di impresentabilità». L’imbarazzo sulla tangentopoli ligure: «Toti pensi ai cittadini, solo lui sa cos’è meglio fare»
Doveva essere “la madre di tutte le riforme”, il perno intorno al quale costruire la legislatura, l’impronta di Fratelli d’Italia sulla Costituzione e sul futuro del Paese. Come non detto. Se gli italiani bocciano il premierato «chissene importa», dice Giorgia Meloni in un lampo di romanità rionale. Suona come un requiem, come la consapevolezza di aver scommesso tutto su un cavallo che sta rivelando troppe debolezze. E se alla fine dovesse perdere per davvero, «io non mi dimetto».
È un ulteriore passo indietro, rispetto al fatalismo con cui a Trento, pochi giorni fa, la premier aveva detto: «O la va o la spacca». Adesso si mette al riparo, niente si spaccherà, men che meno la sua permanenza a Palazzo Chigi. Ma di fronte alle mille difficoltà di una riforma criticata persino all’interno di FdI, Meloni deve spostare il mirino su obiettivi meno pericolosi: «Arriverò alla fine dei 5 anni e chiederò agli italiani di essere giudicata», dice intervistata a In mezz’ora. Se la “madre di tutte le riforme” muore, semplicemente, «gli italiani non l’avranno condivisa».
D’altro canto il referendum, per come si stanno mettendo le cose, rischia di trasformarsi in una trappola mortale. «Non mi fa paura», assicura Meloni, ma subito dopo scansa una personalizzazione che lei per prima ha cercato, accentrando il lavoro sul testo a Palazzo Chigi e rendendo il premierato centrale nel programma del suo governo: «Non è un referendum su di me, ma sul futuro del Paese». E dall’altra parte del fronte c’è la sinistra. «Qualcuno si vuole opporre con il corpo a questa riforma», dice riferendosi alla segretaria del Pd Elly Schlein. I Dem, punge ancora, «propongono di raddoppiare i senatori a vita, ma non vogliono che i cittadini scelgano chi governa». Ma ha gioco facile il Pd nel contrattaccare Meloni, che «considera l’impianto costituzionale meno importante della durata del suo governo».
Dopo aver abbandonato il premierato sulla strada del «chissene», meglio pensare alle Europee. La linea è sempre quella di chiusura a una generica «sinistra» europea, e di apertura a «una maggioranza alternativa di centrodestra» che a Bruxelles ricalchi lo schema italiano: i Popolari di Antonio Tajani, gli Identitari di Matteo Salvini e i “suoi” Conservatori. Questo non vuol dire sconfessare il suo rapporto con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, descritta come una «pragmatica». Semmai, più genericamente, critica le «scelte ideologiche di una Commissione che ha sbagliato molto». Come sul l’immigrazione, dove in Italia vede «una sinistra nervosa» che sul protocollo Italia-Albania «prima ci attacca perché stavamo costruendo una Guantanamo e poi si lamenta dei ritardi nella costruzione». Scommette, invece, che «farà da apripista in Ue», soprattutto se – contrariamente a tutte le previsioni – si riuscirà a formare una maggioranza di destra. Ma «gli alleati di Meloni e Salvini – dice Schlein – sono quelli che andavano in giro con il cartello “non un centesimo all’Italia”. Non si fanno cosi gli interessi del Paese. E sui migranti basta con la guerra alle ong». Mondi contrapposti. Infatti, precisa la premier, «non sono disposta a fare una maggioranza con la sinistra», questo è l’unico veto. Nel centrodestra, invece, porte aperte a tutti, anche all’ultradestra e all’alleata di Salvini, Marine Le Pen. «Non sono abituata a dare patenti di presentabilità», sottolinea Meloni. Ma questo non significa che sia in cantiere alcun progetto che porti a unire i due gruppi, quello degli Identitari e quello dei Conservatori. Se venissero confermati nelle urne gli ultimi sondaggi, infatti, Le Pen avrebbe la delegazione più pesante e potrebbe pretendere la presidenza del gruppo, scalzando Meloni.
Soffrirebbe il protagonismo della leader francese, così come soffre quello del premier Emmanuel Macron in Europea e nella partita ucraina. Prima si è tirata fuori dalla proposta di Parigi di inviare militari a Kiev e ora si trova a frenare anche l’idea del segretario della Nato Jens Stoltenberg, che in un’intervista all’Economist ragiona sulla possibilità di permettere all’Ucraina di attaccare obiettivi militari sul suolo russo: «Non so perché Stoltenberg dica una cosa del genere. Bisogna essere molto prudenti», avverte Meloni, ricordando come, in queste settimane, «sono molte le dichiarazioni discutibili. Ricordo Macron». È la risposta che aspettava il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, che però rilancia e chiede anche, con un intervento sui social, di «desecretare i decreti sulle armi».
La premier, affrontando questioni di politica interna, sferza di rimando Conte, criticando il superbonus e il «disastro dei 220 miliardi di buco» che ha provocato (nonostante la stessa Fratelli d’Italia, la scorsa legislatura, volesse prorogarlo fino al 2025). Poi passa ad attaccare la magistratura per la gestione dell’inchiesta ligure: «Non possono passare mesi tra la richiesta e l’esecuzione di una misura cautelare». Poi evita di prendere posizione sulle dimissioni del governatore Giovanni Toti: «Solo lui conosce la verità e sa cosa è meglio per i cittadini». Ma non si esprimerà finché non avrà «tutti gli elementi». Possibilmente, dopo le Europee.