L’Italia rappresenta un’anomalia alle elezioni europee. In nessuno stato membro dell’Unione europea, infatti, si registra la candidatura diretta nelle liste per Strasbrugo e Bruxelles dei leader di partito. Come, invece, avviene nel nostro Paese in cui ben 5 segretari di partito guideranno le proprie liste, spesso in tutte le circoscrizioni o quasi. Il caso più eclatante è quello della premier Giorgia Meloni (un unicum europeo la candidatura del capo di governo in carica), che si trova però in compagnia di Antonio Tajani (FI), Elly Schlein (Pd), Carlo Calenda (Azione) e Matteo Renzi (Stati Uniti d’Europa). Tutti questi, ad eccezione di Renzi, hanno già chiarito che in caso di elezione non andranno a sedersi sul seggio brussellese.
L’anomalia italiana, però, trova una spiegazione in un’altra anomalia: quella del sistema di elezione per il parlamento europeo.
Solo l’Italia tra i grandi stati membri dell’UE, infatti, prevede una suddivisione in Circoscrizioni di dimensioni così grandi. A parte la Circoscrizione Isole (che unisce senza logica Sardegna e Sicilia) che comunque misura oltre 6 milioni, le altre quattro circoscrizioni contano tutte più di 10 milioni di abitanti. Nord-ovest 16 milioni, Nord-est 11,6 milioni, Centro 12 milioni, Sud 14 milioni. Solo l’Italia, tra i grandi Paesi, prevede l’elezione in circoscrizioni così grandi tramite preferenze.
I leader candidati per forza
Ora, quali sono i politici che possono ragionevolmente convincere (in un mese di campagna elettorale) migliaia di persone a scrivere il loro cognome sulla scheda dentro un bacino elettorale che può contare fino a 16 milioni di abitanti? Solo i leader nazionali o i personaggi mediaticamente più noti.
Diventa quasi naturale, in un sistema di voto così combinato e in un’epoca di partiti deboli, che i leader siano spinti a scendere in campo in prima persona. Così come è altrettanto frequente che vengano candidati personaggi televisivi noti al grande pubblico per ragioni estranee alla politica, ma grazie alla loro notorietà possono attirare centinaia di migliaia di voti.
Fu la logica che, ad esempio, portò nel 2004 l’Ulivo a candidare e far eleggere Michele Santoro e Lilly Gruber o nel 2009 il PD a puntare sul compianto David Sassoli (all’epoca conduttore del Tg1 delle 20 e che, a differenza degli altri due colleghi che si dimisero prima della fine del mandato, seppe farsi apprezzare al punto da essere poi eletto presidente del parlamento europeo).
Alcuni osservatori sostengono che farsi votare per poi rimanere al proprio posto in Italia equivalga ad un “tradimento” del mandato elettorale. Ma davvero pensate che i milioni di italiani che sulla scheda scriveranno Meloni (o “Giorgia”), Schelin (o “Elly”), Tajani, Calenda o Renzi, si aspettano che i loro leader vadano a Bruxelles? Chi vota il proprio segretario di partito non gli chiede di trasferirsi a Bruxelles ma spera di dargli più forza nella battaglia politica nazionale.
La vera anomalia italiana
Quello che si dovrebbe chiedere alla politica, invece, è mettere mano alla legge elettorale italiana per il parlamento europeo. Che così impostata (circoscrizioni da oltre 10 milioni di abitanti e preferenze dirette) prevede costi enormi, si presta a distorsioni e impedisce di consolidare una classe dirigente europea come fanno i nostri principali partner europei. L’Italia dovrebbe, invece, uniformarsi a ciò che fanno le altre grandi democrazie dell’UE.
In Francia, Germania e Spagna, ad esempio, per le elezioni europee esiste un solo collegio nazionale con liste bloccate e l’elettore vota per il partito che meglio lo rappresenta. In questi Stati, i candidati al parlamento europeo vengono decisi con processi di selezione interni ai partiti molti mesi prima del voto e chi sceglie di votare un partito ha contezza anche di quale sarebbe la “squadra” che porterebbe a Bruxelles.
Senza un modello simile, il voto europeo in Italia continuerà ad essere una finta elezione nazionale di Midterm anziché un’occasione per confrontarci davvero sull’Europa che vorremmo.
Fonte: Today