La maggioranza contraria ai raid in territorio russo e all’invio di soldati. Sì agli aiuti nonostante il no di Budapest. I leader del centrodestra vorrebbero l’ungherese ognuno nel proprio gruppo Ue per rinsaldare i legami con Trump
Il governo non ha alcuna intenzione di sposare la linea bellicista del premier francese Emanuel Macron. D’altronde le Europee sono a un passo e nel centrodestra non si vuole riaccendere su questo tema l’opinione pubblica italiana, da sempre incline al pacifismo. Meloni e Tajani, poi, preferiscono evitare nuovi scontri con la Lega, che da mesi suona il tamburo sul pericolo di una imminente terza guerra mondiale. Tanto che persino l’ottavo decreto armi, già pronto da tempo, verrà formalizzato subito dopo le elezioni. Per questo le delegazioni parlamentari di centrodestra, all’Assemblea Nato, votano compattamente contro l’emendamento con cui il Canada vuole permettere a Kiev di attaccare alcuni obiettivi militari sul territorio russo. L’emendamento viene comunque approvato, finisce come uno dei venti punti della dichiarazione finale dell’Alleanza atlantica e, stavolta, Fratelli d’Italia, Lega, Udc e Forza Italia votano a favore, insieme al Pd, assicurando la compattezza del fronte di sostegno all’Ucraina.
Non una parola di condanna, però, viene spesa da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini di fronte al veto posto dall’Ungheria a Bruxelles, con cui il Paese guidato da Viktor Orban ha bloccato (unico dei 27 membri Ue) l’erogazione di 5 miliardi del Fondo di assistenza per l’Ucraina per il 2024, a cui si sarebbero dovuti aggiungere 2,7 miliardi di euro presi dagli asset russi immobilizzati per le sanzioni. Da mesi, d’altronde, Meloni e Salvini si contendono i favori di Orban. Entrambi lo vorrebbero ognuno nel proprio gruppo europeo, per ingrossare le file e avere più peso nelle decisioni comunitarie. Convinti, ancora oggi, nonostante le sue posizioni filorusse siano ormai considerate largamente un problema. Questo perché a Meloni, così come a Salvini, Orban interessa anche perché è l’unico vero punto di riferimento di Donald Trump in Europa, come confermano più fonti di peso del mondo trumpiano a La Stampa, e se il tycoon dovesse tornare alla Casa Bianca, «Orban può essere un ponte legittimo, per la destra italiana, attraverso il quale costruire un rapporto che in questo momento non è saldo».
Le elezioni americane d’altronde si avvicinano e Meloni si trova in una posizione difficile, così come il suo vicepremier leghista, perché a nessuno dei due è davvero chiaro, in caso di vittoria di Trump, con che occhi il tycoon guarderebbe a loro e al governo italiano. Trump ha intorno a sé una galassia eterogenea in cui è immerso e da cui ottiene informazioni sulle questioni europee, comprese quelle del nostro Paese. Ultra conservatori, ex funzionari della Casa Bianca, influencer del mondo Maga (Make America Great Again, lo slogan delle presidenziali 2016), ideologi del sovranismo come Steve Bannon: un multistrato di uomini e donne che porta diversi punti di vista. Tra di loro c’è chi è “innamorato” del governo italiano, ma anche chi lo giudica inaffidabile.
A chi presterà più ascolto, Trump, in caso di vittoria alle presidenziali? Bannon, per dire, è tornato ad avere una certa influenza a Mar-a-Lago, quartier generale di Trump. Nel suo podcast, The War Room, ospita spesso il portavoce dell’ex presidente Usa, tra sorrisi e grandi abbracci. E da quelle parti Meloni non piace. La premier è stata ribattezzata da Bannon e dai suoi seguaci «Phoney Meloni», Meloni “la Falsa”, perché – sostengono – avrebbe «tradito» il trumpismo nel 2020, «considerandolo ormai sconfitto e passato». Come racconta a La Stampa chi è vicino a Bannon, la premier «era critica nei confronti dell’Ue e della Nato, aveva certe idee sull’immigrazione, ma una volta al potere si è rimangiata tutto», fino a supportare in prima linea la resistenza ucraina e il presidente Volodomyr Zelensky, al fianco di Joe Biden. Salvini è vittima allo stesso modo dei diversi mondi trumpiani. C’è chi lo considera un punto di riferimento, come l’imprenditore Vivek Ramaswamy, lanciato nella corsa alle primarie repubblicane e altrettanto rapidamente tiratosi indietro per appoggiare Trump, o Matt Mowers, ex consigliere senior dello studio ovale presso il Dipartimento di Stato, e Joe Grogan, ex direttore del Consiglio per le politiche interne della Casa Bianca ai tempi del tycoon, tutti presenti alla convention identitaria organizzata da Salvini a Roma. Ma c’è anche chi, all’interno della galassia Maga, considera Salvini troppo debole, oggi, per poter ambire a essere il punto di riferimento del mondo trumpiano in Italia. Per questo serve Orban, il gioco di sponda con Roma e, magari – Salvini ci spera – con Marine Le Pen all’Eliseo.