Paghe basse e poca soddisfazione: se per i giovani l’occupazione non conta

02.05.2024
Paghe basse e poca soddisfazione: se per i giovani l’occupazione non conta
Paghe basse e poca soddisfazione: se per i giovani l’occupazione non conta

Lo studio: per gli Under 35 la professione è all’ottavo posta nella scala delle priorità

Il lavoro è all’ottavo posto nella vita delle persone. Lo dice il nuovo Report «I giovani e il lavoro», di Area Studi Legacoop e Ipsos, che lo ha chiesto a un campione rappresentativo di persone tra i 18 ai 34 anni. Per il 32% dei giovani di quell’età, il lavoro occupa l’ottavo posto della propria scala valoriale. Prima vengo priorità assai diverse, come il rispetto (50%), l’onestà (44%), la libertà (42%), l’amicizia (41%), la sincerità (37%), la famiglia (36%). Il rapporto evidenzia tutta una serie di altri dati interessanti. Nel guardare al futuro, infatti, il 30% delle risposte indica come priorità la sicurezza, seguita subito dall’uguaglianza (29%), dalla stabilità (26%), dall’ecologia (23%), dall’innovazione e dalla giustizia sociale (21%). Infine, parlando di problemi sociali la maggior parte delle risposte pone al primo posto la precarietà del lavoro e la mancanza di prospettive per i giovani (32%), seguite dalla scarsa attenzione all’ambiente e il cambiamento climatico (29%), dalla mancanza di riconoscimento del merito (26%).

È uno spaccato interessante, quello che emerge dallo studio di Legacoop e Ipsos, che offre un ritratto delle giovani generazioni in controtendenza con quello dominante. Lungi dall’essere fragili o svogliate, qui appaiono protese a intervenire con urgenza su tutti quei focolai di crisi che minacciano il presente e il futuro, trovando soluzioni contro i problemi fondamentali dell’oggi: il cambiamento climatico (24%), per il miglioramento della sanità pubblica (24%), per la riduzione della povertà e della disuguaglianza sociale (21%) e della disoccupazione giovanile (20%).

Ma se il ritratto generazionale è uno dei temi che emerge da questo rapporto, il dato più interessante è quello sul lavoro. È dalla pandemia che la perdita di centralità del lavoro nella vita delle persone è un tema di discussione. Spesso interpretato come dato generazionale e come sintomo di un nuovo approccio al lavoro della generazione Z, c’è da chiedersi se la tendenza a ridurre il ruolo del lavoro nella vita delle persone dipenda davvero dalle propensioni individuali delle diverse generazioni e non piuttosto dalla qualità del lavoro stesso nella nostra società.

Nelle definizioni più interessanti di lavoro, l’aspetto che maggiormente spicca è il ruolo che il lavoro svolge nella sua capacità di trasformare la realtà attraverso l’operato umano, al fine di soddisfarne i bisogni individuali e collettivi. Un’istantanea dell’Italia contemporanea mostra come queste due esigenze non vengano necessariamente soddisfatte nel lavoro contemporaneo. Da un lato, il problema è lo scarso riconoscimento economico, professionale e sociale del lavoro in Italia, così segnato da paghe basse, scarsa mobilità sociale e lavori scarsamente qualificati, che lascia gli individui insoddisfatti. Dall’altro, c’è un contesto produttivo da tempo segnato da precarietà, crisi aziendali, delocalizzazione e deindustrializzazione, a restituire il quadro generale di un Paese in cui a farla da padrone non è un’idea di futuro sostenuta da una vera politica industriale e da investimenti in ricerca e sviluppo, bensì un eterno presente fatto di sfruttamento, sgravi fiscali e bonus una tantum. In questo contesto, non sorprende che il lavoro, per i più giovani, sia sceso all’ottavo posto nella lista delle priorità. Il lavoro non è più un fine, dice il rapporto, a indicare una relazione con il lavoro che per molte persone sta diventando strumentale – il 41% lo considera una mera fonte di reddito, mentre il 39 per cento lo considera un diritto e il 38 per cento lo considera un modo per affermare la propria indipendenza. Questo, tuttavia, non vale solo per le nuove generazioni. Lo aveva detto bene il Sesto rapporto Censis-Eduroam sul welfare aziendale: il 64,4% degli occupati ha un rapporto strumentale con il lavoro. E questo riguarda il 69,7% dei giovani, il 62,3% degli adulti ed il 59,4% degli anziani. Esattamente come riguarda il 76,6% nelle persone con al massimo licenza media ed il 49,3% dei laureati. L’insoddisfazione, in altre parole, aumenta quanto più il lavoro è dequalificato e sottopagato. È anche da questo che nasce la tendenza contemporanea a disinvestire sul lavoro. Il Settimo rapporto Censis-Eduroam sul welfare aziendale, ad esempio, osservava che il 67,7% degli occupati desidera ridurre il tempo dedicato al lavoro. E questo vale per il 65% dei giovani, per il 66 degli adulti e per il 69% degli anziani.

Viene da pensare che il problema, in Italia, non sia il carattere delle generazioni ma il senso del lavoro stesso e il modo in cui è organizzato. In un contesto fatto di insoddisfazione, di disaffezione al lavoro, di turnover volontario, di crisi demografica e di difficoltà ad attrarre e trattenere personale, sarà meglio prendere questa insoddisfazione sul serio.

Fonte: LaStampa

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