Dal jazz per l’Aquila al festival nella sua Sardegna, il trombettista ha raggiunto una popolarità da popstar: «Angosciato dalle guerre, ma la musica spinge alla riflessione e per questo può essere un antidoto»
Paolo Fresu non è un jazzista snob. È un signore alla portata dell’umanità tutta, umanista convinto fin da ragazzo, quando suonava nella banda del suo paese in Sardegna: «Ho trovato nel mio cammino persone e artisti straordinari con i quali ho potuto condividere molto. Se ciò è accaduto è grazie a coloro che sono stati in ascolto e hanno osservato il mio sentire, dando forma ai sogni e alle ispirazioni che continuo a spartire con loro e con tanti altri». Grande comunicatore, ha raggiunto una popolarità che unisce le correnti più sofisticate e le persone comuni. Non sorprende che in questi anni sia diventato promotore di manifestazioni come «Il jazz italiano per le terre del sisma» all’Aquila e dintorni, con raccolta fondi in tutt’Italia grazie ai quali la Federazione del Jazz Italiano – di cui è presidente – è arrivata spesso prima dei governi.
Si dice che lei Fresu sia un lavoratore instancabile. Quanti concerti fa all’anno?
«Una volta dicevo 200, sono nel jazz fra quelli che lavorano di più. Mi piace saltare da un progetto all’altro. Adesso esce Legacy, che significa eredità, lascito: sono dischi, ma è anche un progetto per festeggiare i 40 anni del mio Quintetto, i 22 in duo con Uri Caine e i 20 con il Devil Quartet. Sono lavori del tutto improvvisati, in 3 dischi e 3 vinili diversi tra loro, per 60 brani. Si va dal barocco a Gershwin a Puccini a Modugno. Solo lavorando insieme per tanti anni puoi uscire con un disco di libertà totale, e partecipare a festival per anni di fila con progetti diversi ogni sera. Ma faccio anche serate con musiche da camera o orchestre».
E poi c’è Berchidda, in agosto. Il suo festival, a casa sua.
«Questa volta prenderemo spunto da un disco di 60 anni fa, A Love Supreme di Coltrane che ha cambiato il corso della storia. Un tema, l’amore supremo, che esula da qualunque discorso religioso o politico, si parla di amore nel senso più ampio attraverso la musica. Mi piace molto puntare lì, con l’aria che tira. Il nostro festival è sempre molto attento a quel che accade vicino o lontano: la musica può contribuire a una riflessione e diventare un antidoto importante. Temi come l’accettazione dell’altro o il femminicidio fanno parte della costruzione sbagliata della società; la musica si respira insieme, non chiedi al vicino se è musulmano o cristiano, di destra o di sinistra».
Ha paura anche lei come tutti del momento che viviamo?
«Sono preoccupato e angosciato. L’altra notte a Parigi dopo un concerto son tornato a casa a piedi; vicino a Place de la République c’erano tanti disperati che gridavano da soli. Un giovane mi si è affiancato, parlava da solo ma poi mi diceva in spagnolo: “ho perso tre amici in un incidente, l’ho saputo adesso. Dov’è la stazione? ”. Ho provato commiserazione preoccupazione e rabbia, non ho avuto paura che mi ficcasse un coltello in un rene. Aveva una disperazione profonda e non credo mi raccontasse storie. Ho pensato alla musica, entrando in casa: non può risolvere i problemi del mondo, nessuno può. Ma l’insieme delle buone azioni e dei buoni pensieri può fare grandi cose. Se partiamo da questa idea, forse il presente diventa meno assillante».
Un tempo si pensava che la musica potesse cambiare il mondo.
«La musica può contribuire, l’artista in più ha una responsabilità, di tradurre il presente con uno strumento creativo. Alcuni artisti che hanno ascendente dovrebbero dire cosa vorrebbero accadesse, perché la gente se lo aspetta. Nella storia si è sempre avuta un po’paura degli artisti, i politici soprattutto».
I suoi colleghi e amici, hanno i suoi stessi sentimenti?
«Ho amici dal Maghreb, Palestina o Israele, hanno i loro pensieri e ne parliamo. Ma molti non si esprimono, oppure tutto finisce nella rete che è uno strumento perfido e pericoloso, e poi chi coglie non ha l’attenzione adatta e passa oltre. È vero, alcuni artisti hanno paura della gogna mediatica, di perdere fans, vendere un disco in meno. Una volta che scrissi dello ius soli per il quale mi battevo, su Facebook, mi arrivarono migliaia di insulti; io scrissi la classifica dei primi cinquanta, con i nomi, poi il podio dei 3 insulti migliori».
La Milanesiana sarà dedicata alla timidezza. Lei è timido?
«Sono caratterialmente timido, da ragazzo mi chiudevo e ancora capita. Un mio batterista, intervistato su di me, rispose: “credevo fosse muto”. Ho imparato a metabolizzare con il tempo tutto quel vissuto dell’infanzia e della Sardegna. Tengo caro il modo di porci rispetto agli altri, la nostra personalità è quello che sei stato e hai costruito».
C’è qualcosa di molto sardo in questo?
«L’imprinting viene da lì, dalla mia famiglia che mi ha forgiato. Mia mamma diceva che ero testardissimo e mio figlio è come me».
Torna spesso in Sardegna?
«Ci vado alle feste comandate, ho una mamma di 97 anni e molti amici, parlo sardo e penso anche in sardo».
È vero che da ragazzo faceva il pastore?
«Pastore è eccessivo. Mio papà era pastore e contadino, da bambino davo una mano. Sono andato via a 20 anni, facevo piccoli concertini fuori, insegnavo alle medie e quando tornavo in paese mi chiedevano: quando riparti? Ma non sono mai stato solo fuori. Non sento di essere partito».
Fonte: LaStampa