Nomine Ue ed elezioni in Francia: perché è una settimana decisiva per il futuro dell’Europa

25.06.2024
Nomine Ue ed elezioni in Francia: perché è una settimana decisiva per il futuro dell'Europa
Nomine Ue ed elezioni in Francia: perché è una settimana decisiva per il futuro dell'Europa

Il 27 e 28 giugno i leader cercheranno di trovare un accordo sui top job del blocco. Ma il voto transalpino potrebbe far saltare l’intesa: il fantasma di Le Pen e il ruolo di Meloni

Si scrive Consiglio europeo, si legge elezioni francesi. Il voto in Francia piomba come da attese sulla settimana che porta al nuovo summit di Bruxelles (27 e 28 giugno) e che potrebbe essere decisiva per le nomine ai vertici delle istituzioni Ue. I negoziati tra le capitali del blocco e i partiti europei si stanno intensificando, e in molti sperano di riuscire a chiudere la partita dei cosiddetti “top job” entro venerdì. Ma soprattutto entro l’apertura delle urne transalpine (30 giugno), il cui esito rischierebbe di complicare i già complessi equilibri di potere in Europa. 

A che punto siamo

Le trattative europee sembrano ripartire da dove ci si era fermati lunedì scorso, quando i leader Ue si era ritrovati per un primo summit informale a Bruxelles: in pole per le cariche apicali ci sono la popolare Ursula von der Leyen (Ppe) alla Commissione, il socialista Antonio Costa (Pse) al Consiglio e la liberale Kaja Kallas (Renew) all’Alto rappresentante, con l’altra esponente dei popolari Roberto Metsola verso la riconferma al Parlamento. La quadra, stando a quanto emerso a margine del vertice, non era stata trovata non tanto per nomi e ripartizione delle cariche, quanto per l’insistenza del Ppe a ridurre la durata della presidenza del Consiglio dagli usuali 5 anni a due anni e mezzo, in modo da poter piazzare un proprio esponente su questa poltrona nel 2026. Richiesta che non era andata giù ai socialisti.

A quanto pare, i popolari sarebbero adesso disposti a rinviare in futuro la battaglia per il Consiglio, onde evitare lungaggini ulteriori per la chiusura della partita delle nomine. Nel Ppe, ma anche (se non soprattutto) tra le fila di Pse e Renew, c’è chi teme che il voto in Francia, con la potenziale vittoria dei sovranisti del Rassemblement national di Marine Le Pen, possa far saltare l’accordo di maggioranza tra popolari, socialisti e liberali, e con esso quello sulle nomine ai vertici Ue. 

Il fantasma di Le Pen

È anche vero, però, che dentro il Ppe c’è chi rema perché questo scenario si avveri: è noto che un pezzo dei popolari vuole rafforzare i legami con la destra, in particolare con i conservatori dell’Ecr guidati da Giorgia Meloni. La scorsa settimana al Parlamento Ue, la “campagna acquisiti” degli eurodeputati non ancora affiliati a un gruppo ha consentito all’Ecr di salire a 83 seggi e di scavalcare i liberali, scesi a 74. Un sorpasso che i conservatori potrebbero usare per rivendicare persino un posto tra i top job

Per ottenerlo, dovrebbero però entrare formalmente in una maggioranza con i socialisti, eventualità negata in partenza sia dall’Ecr, sia dal Pse. D’altra parte, se è vero che, senza i socialisti, i popolari non riuscirebbero a trovare un’intesa di governo stabile per i prossimi 5 anni, va anche detto che senza i voti degli eurodeputati conservatori (o di una parte di loro) l’eventuale riconferma di von der Leyen sarebbe messa a rischio all’Eurocamera dai franchi tiratori dell’attuale maggioranza (come già successo nel 2019). In altre parole, per il Ppe è necessario trovare una forma di patto con l’Ecr, anche se sottobanco.

Il ruolo di Meloni

Meloni, in tutto questo, si trova in mezzo al guado. All’ultimo vertice Ue, la premier è stata tenuta fuori dal mini summit tra i principali leader del blocco sulla spartizione delle cariche. La ragione del mancato invito è che al tavolo si erano seduti i capi di Stato e di governo che appartengono ai partiti europei dell’attuale maggioranza. Ma l’isolamento non sarebbe piaciuto a Meloni, che l’avrebbe vissuto come un affronto politico e diplomatico, ossia una mancanza di rispetto non solo nei suoi confronti, ma più in generale dell’Italia.

La premier, come hanno chiarito dal suo entourage, punta ad avere un commissario di peso nel nuovo esecutivo, meglio ancora se un vicepresidente. Davanti a sé ha due strade: una porta a sostenere von der Leyen attraverso un appoggio esterno al Parlamento europeo. In questa ipotesi, Meloni farebbe leva sul “pontiere” Antonio Tajani (membro di spicco del Ppe) e potrebbe puntare sul ministro Raffaele Fitto, che alle spalle ha una lunga militanza nei popolari.

L’unità delle destre

L’altra strada la vedrebbe intestarsi la leadership di una sorta di blocco unitario delle destre, ipotesi a cui starebbe lavorando il premier ungherese Viktor Orban, proprio in queste ore a Roma per incontrare la premier. Questa seconda via sarebbe rafforzata da un eventuale successo di Le Pen in Francia: gli ultimi sondaggi danno il suo Rassemblement national nettamente in testa, e anche i calcoli sui seggi all’Assemblea nazionale transalpina (si vota con l’uninominale) vedono il partito sovranista sugli scudi, anche se non ancora al punto di conquistare la maggioranza dei parlamentari.

Il presidente Emmanuel Macron, che ha scommesso sulle elezioni anticipate per resistere all’Eliseo fino al termine del suo mandato, potrebbe trovarsi costretto ad affidare le chiavi del governo a Le Pen (e al suo braccio destro Jordan Bardella). Oppure, potrebbe andare avanti come ha fatto finora, ossia con un esecutivo di minoranza a fronte di un Parlamento balcanizzato. La prima ipotesi è quella che potrebbe avere maggiori riflessi sull’assetto di potere nell’Ue: se al summit di giovedì e venerdì, i leader del blocco non troveranno un accordo sui top job, un eventuale governo di Parigi guidato da Rn avrebbe la possibilità di dira la sua sulle nomine europee. Riaprendo il vaso di Pandora. Ed è qui che Meloni potrebbe cambiare atteggiamento: da “colomba” pronta a sostenere con der Leyen, a “falco” deciso a sventolare la bandiera delle destre unite a Bruxelles.   

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