Borse, scoppia il caso dei signori delle assemblee: ecco i super-consulenti finiti nel mirino di JP Morgan

18.04.2024
Borse, scoppia il caso dei signori delle assemblee: ecco i super-consulenti finiti nel mirino di JP Morgan
Borse, scoppia il caso dei signori delle assemblee: ecco i super-consulenti finiti nel mirino di JP Morgan

Ha fatto scalpore l’ultima lettera del banchiere Jamie Dimon in cui attacca i proxy advisor: «Hanno troppa influenza»

Chi decide le sorti di un’assemblea di una società quotata in borsa? Gli azionisti o un pugno di consulenti che decide per tutti? L’ultima battaglia in tema di governo delle imprese parte da Wall Street e in particolare da Jamie Dimon, il numero uno della più grande banca del mondo, J. P. Morgan Chase. Il superbanchiere suona il gong per mettere un freno allo strapotere dei proxy advisor, i consulenti dei grandi fondi che spesso determinano l’esito delle assemblee e quindi anche di grandi battaglie finanziarie. In America come in Italia. Riguardo a loro, nella lettera annuale agli investitori, Dimon parla di “indebita influenza” nel governo delle imprese quotate. Per capire la portata di tale spunto polemico bisogna capire chi sono e cosa fanno i proxy advisor, i signori delle assemblee.

Negli Stati Uniti sono comparse nella metà degli Anni 80 del secolo scorso, ma da oltre un decennio sono attive e fanno sentire tutto la loro influenza anche in Europa. Esse studiano volta a volta i quesiti che le società quotate pongono ai soci in assemblea e, attraverso degli studi argomentati, consigliano i loro clienti, per lo più fondi piccoli e grandi, cosa fare. I loro verdetti: “For”, votare a favore. Oppure “against”, contro. Senza appello.

Decidono di tutto e su tutto. Se gli emolumenti attribuiti ai banchieri sono giusti o esagerati. Quali candidati consiglieri vanno votati, quali liste, segnalano quando un amministratore delegato è adatto o meno al compito che lo aspetta.

I proxy suggeriscono, e sono ascoltatissimi. Sono ormai centrali in un mondo della finanza globale e interconnesso. Ma cosa ne sa di quello che accade in una società con sede a Milano un gestore di un fondo che lavora a New York, a Toronto, a Tokyo, a Sidney? Ed ecco che allora il gestore, piuttosto che scartabellare documenti dell’altro mondo, delega. A chi? A loro: i proxy advisor. I consulenti, arbitri in Terra del bene e del male.

Il più famoso, globale (e ascoltato) è Iss, sigla che sta per Institutional Shareholders Services. È nato nel 1985 ed è controllato dalla società che gestisce la Borsa di Francoforte, Deutsche Börse Group, ma il quartier generale sta nel Maryland, Usa. Si rivolge a qualcosa come 3.400 clienti dispersi nel mondo, per lo più investitori istituzionali. Altro proxy assai influente è Glass Lewis, fondato nel 2003 con sede a San Francisco e che fa capo a un fondo di private equity canadese, Peloton, insieme a un veterano della finanza dei grandi laghi, Stephen Smith. Insieme hanno preso il testimone tre anni fa dal Fondo Pensione degli insegnanti dell’Ontario e da AimCo. A sua volta Glass Lewis ha oltre 1300 clienti globali da guidare nelle scelte da attuare nelle società in cui investono. Questi sono i più influenti, ma ce ne sono altri, più locali. Tra essi l’italiana Frontis Governance, l’unica focalizzata sul nostro mercato e fondata nel 2011 da Sergio Carbonara, il quale ha l’80% del capitale, mentre l’altro 20% fa capo a Gian Carlo Sascaro. Oppure l’inglese Pirc, fondata nel 1986 e tuttora guidata da Alan MacDougall.

Un piccolo club per un grande potere: decidere cosa decideranno i soci delle principali società mondiali, incluse quelle quotate in una periferia dell’Impero (finanziario) come Piazza Affari. Ora dall’America arriva il primo scricchiolio di tale sistema. “Mi chiedo – ha scritto Dimon alcuni giorni fa – se la corporate governance americana debba essere determinata da istituzioni internazionali che mirano al profitto e che possono avere propri forti impressioni su quanto costituisca buona governance”. Contribuendo a rendere i principi di governo delle imprese “sempre più modellati e stereotipati”. Il banchiere fa degli esempi. “I proxy advisor – scrive nella lettera – possono giudicare automaticamente in maniera sfavorevole candidati consiglieri se essi sono in consiglio da lungo tempo, senza una corretta valutazione sul loro effettivo contributo o esperienza”. Altro esempio, procede Dimon, “è la continua battaglia condotta da alcuni proxy advisor che cercano di separare il ruolo di presidente da quello di ad, laddove non c’è evidenza che questa renda migliore la società”. Il primo gong è suonato. Reggerà a lungo il potere dei consulenti?

Fonte: LaStampa

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