Solo Veltroni aveva messo il nome nel simbolo del Pd. Così Elly rilancia la sfida alla rivale Giorgia che domina FdI anche nel logo elettorale. Conte e Salvini solo ai margini
Pd reloaded in versione partito personale. Nell’ottica, soprattutto, del derby al femminile e della «guerra (elettorale) delle due Rose». Quella Rossa (o Rossoverde) della leader del Partito democratico e quella Nera (o Neroblu) della premier di FdI.
Il nome della segretaria Elly Schlein nel simbolo per le elezioni europee è un’autentica rivoluzione, e una spinta dirompente nella direzione di quella personalizzazione da cui i dirigenti del Pd si erano sempre proclamati fieramente immuni (con la relativa esplosione del dissenso). Si trattava di un’eccezione che confermava una (quasi) regola, poiché un posto importante nella galleria di innovazioni e involuzioni dell’Italia laboratorio politico è ricoperto proprio dal partito personale. Illustrato esemplarmente dal politologo Mauro Calise in un libro di inizio anni Duemila, nel quale evidenziava che «nella crisi dei partiti, il leader appare ormai privo della corazza della responsabilità collegiale, secolare conquista della civiltà statale». Un attributo, quello di “collegiale” da associare alla leadership, a cui aveva sempre fatto ricorso chi ha guidato il Pd, insieme allo slogan del «noi che prevale sull’io», per marcare la distinzione dal centrodestra monocratico.
Man mano che la consultazione degli iscritti si faceva più flebile e quella che era stata una macchina organizzativa capillare si ritirava, il verticismo – connaturato, in verità, al fu Pci – risultava più evidente. Anche se c’erano comunque le famose-famigerate correnti a impedire che il segretario esercitasse le sue potestà nella stessa maniera “personalistica” degli avversari. Tant’è, infatti, che con l’eccezione delle politiche del 2008, quando nel contrassegno del Pd venne inserito il nome di Walter Veltroni, nemmeno nella stagione del «PdR» (il «Partito di Renzi», come lo definì Ilvo Diamanti) si arrivò al «nominalismo elettorale», bocciato pure in epoca Bersani.
E, dunque, cosa sta succedendo ora dentro il Pd? Per un verso, si tratta dello spirito dei tempi, più irresistibile di quel pochissimo che rimane della storia novecentesca della sinistra. Uno Zeitgeist intriso di disintermediazione, direttismo e comunicazione istantanea via piattaforme e social network, che è iscritto a chiare lettere anche nella biografia della segretaria millennial dei dem. Per l’altro, la svolta schleiniana ha tutta l’aria di impostare una strategia di campaigning basata sulla polarizzazione. La decisione sembra difatti funzionale ad accreditare uno schema di competizione con marcatura “a uomo” (ovvero “a donna”) nei confronti di Giorgia Meloni. Utile anche in televisione, che rimane il medium fondamentale in termini di numeri (e audience) per l’informazione e la battaglia politiche. E che ha partorito la videocrazia, contribuendo fortissimamente, a cominciare dagli Usa degli anni Sessanta, a personalizzare i processi e i fenomeni sociopolitici. In questa personalizzazione politica al femminile (e femminilizzazione della leadership) si affaccia, seppure non rivendicata né esibita, come ovvio, una forma di legittimazione reciproca finalizzata a concentrare su di loro l’attenzione per il conflitto politico (ribadita dal prossimo duello tv). Così che tertium non datur: nella fattispecie Giuseppe Conte da una parte, e Matteo Salvini dall’altra, due uomini in maniera differente “muscolari” e “testosteronici” che, infatti, smaniano provando in tutti modi a stare in campo.
La contrapposizione Meloni-Schlein è una formula di antagonismo e narrazione imperniata sulla polarizzazione di genere che, a sua volta, intercetta un sentiment sempre più diffuso nella società e i numeri elevati del corpo elettorale di sesso femminile.
Va poi rimarcato che, a dispetto della retorica sulla collegialità della leadership (anche di quella fatta in buona fede), l’elettorato nella sua larghissima maggioranza ha assorbito e introiettato il linguaggio della politica personalizzata. Compreso quello progressista che, difatti, risulta sempre alla ricerca di un (o una) leader in grado di far prevalere l’unità sulle cinquanta – e più – sfumature di rosso. Senza dover necessariamente scomodare il carisma weberiano, la personalizzazione conduce il politico a puntare sull’empatia con il proprio elettorato-pubblico nelle nostre democrazie (diventate appunto) del leader e del pubblico. E, dunque, è anche una scorciatoia cognitiva, che comporta spesso una quota di populismo. Ecco perché a entrambe le contendenti è giunto il duro rimprovero di Romano Prodi, che naturalmente ha l’effetto di un fulmine a ciel (tutt’altro) che sereno in casa del sinistracentro. Al punto che la direzione dem ha approvato le liste, ma si è presa un sovrappiù di riflessione sulla disputa “nominalistica”. A domani – quando entro le 16 dovranno essere depositati simboli e liste – per la puntata conclusiva di questa House of cards in salsa dem.
Fonte: LaStampa