Viaggio in Libano tra droni, blindati e check point: “La guerra a Gaza? Una volta finita tocca a noi”

31.07.2024
Viaggio in Libano tra droni, blindati e check point: "La guerra a Gaza? Una volta finita tocca a noi"
Viaggio in Libano tra droni, blindati e check point: "La guerra a Gaza? Una volta finita tocca a noi"

A Beirut l’acqua delle falde è contaminata e i black out sono continui, ma nonostante i problemi la città resta viva. A sud del paese si respira un clima più pesante. Non ci sono turisti e sulla costa i locali sono quasi tutti chiusi: si vive nel terrore dei raid

“No, non hanno bombardato Beirut. Non è così. È stato colpito un luogo specifico, peraltro fuori dalla città. Ma non hanno bombardato la città. È illegittimo? Non fate rispondere a una libanese, rispondete voi che rappresentate parte della comunità internazionale”, ci dice in tono deciso ma sempre molto educato una nota avvocata, nata e cresciuta a Beirut. Poche ore fa l’esecuzione consumata via drone da Israele che ha ucciso un comandante di Hezbollah, Fuad Shukr, ritenuto responsabile dell’attacco missilistico che ha colpito un villaggio in Golan in cui sono morti 12 bambini. Il drone ha colpito nel quartiere generale di Hezbollah. Non è distante da uno dei sei stadi della città, il più grande, attorno ai quali troviamo i campi profughi di Sabra e Chatila. Luoghi difficili. Molto difficili.

Era stato già colpito, giusto a inizio luglio, un altro edificio che fa parte di questa che è una vera propria cittadella. A gennaio scorso invece un drone israeliano aveva ucciso un leader di Hamas. Il bilancio di quest’ultimo raid, che ha colpito un palazzo di otto piani è di almeno tre vittime e 25 feriti, molti dei quali bambini.

A Beirut, la città vive nonostante la paura

Che non fosse un’estate come le altre, a Beirut ma in generale in quasi tutto il Paese, lo percepisce subito chi ha un po’ di confidenza con il posto. Di giorno non che non ci sia traffico o gente in giro, ma non tanta come giusto pochi mesi fa o subito dopo il Covid. 

Ora questa nuova crisi, quando segnali di ripresa si cominciavano a vedere talmente evidenti sono. I semafori ad esempio. Non tutti, ma nelle strade di Hamra e di Downtown funzionano. I lampioni sono accesi in molte strade, finalmente. Giusto un anno fa tutte le strade erano tutte buio e il traffico si regolava da solo, anche se questo obiettivamente è più difficile da spiegare visto come si guida da queste parti. Non sempre c’è l’elettricità, si risolve con i generatori. L’assenza di energia non esclude nessuno. Si vedono grandi alberghi, quelli che si affacciano sul lungo mare, la notte, spegnersi e riaccendersi in un lampo. Di colpo la luce va via ma ritorna subito. Non per tutti gli hotel è così. Dipende dalla categoria. Come tutto, a Beirut.

Se pensiamo all’ambiente e alla salute pubblica, il vero problema non è tanto l’immondizia che non si riesce a raccogliere, ma l’acqua delle falde delle città contaminata da quella di mare. Nonostante questi problemi la città vive. I locali sono aperti, e quella di Beirut, soprattutto nel quartiere armeno, rimane sempre “l’ultima notte del mondo”. È difficile darle un altro appellativo. Beirut, la notte, sa essere come neppure Rio de Janeiro.

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Lungo la Sea road, la strada costiera che porta a sud

I turisti non arrivano più, le strade interrotte dai check point

La costa sud libanese di solito brulicava di turisti, soprattutto francesi e inglesi. Tutto questo splendore viene interrotto quasi sempre da check point fino a qui controllati dall’esercito regolare. Più si scende a sud e si lascia la Sea Road, Tiro è alle spalle, più si incontrano ambulanze correre verso nord e a sirene spiegate, nella direzione opposta. Ne avremo incrociate almeno una dozzina. Si vedono sempre più mezzi militari. Ce ne sono a file tra le vie dei piccoli villaggi che attraversiamo, pronti a intervenire. Coperte le indicazioni stradali che mostrano dove sono i vari luoghi. Come abbiamo visto in Ucraina. Mai avevamo però visto però un cartello indicare il pericolo droni. Un ultimo check point ci fa fare retromarcia, ma in zone come queste il controllo dell’area non è sempre e solo ufficiale. Quindi ci si sposta. Poi non si può più andare avanti. O almeno, non si potrebbe.

La strada verso Sud-2
Check point lungo la strada verso sud

A sud del Paese dove si vive con il terrore dei raid

E quel poco che si capisce camminando a piedi quel “non si potrebbe”, è che chi vive in questa zona, che guarda a Israele e al Golan, vive nel terrore. Se c’è una guerra in Libano è qui che si sta consumando, nel distretto di Nabatieh. Per quel poco che si può capire, in questo poco tempo dove non si potrebbe, tutto davvero appeso a un filo. Oltre ai razzi dai droni piovono anche mine che si spargono. Forse Israele non sta spingendo come potrebbe visti gli altri impegni militare, però si fa sentire. A subire quel colpo che comunque arriva, sono civili. Partono da qui i razzi che poi sono andati a colpire il Golan, ma non tutti quelli che vivono qui sono guerriglieri o militanti di hezbollah. Chi ha potuto è andato via, sono rimasti i più anziani. Ong e osservatori internazionali hanno parlato di bombe al fosforo, utilizzate su queste persone. Quaggiù succede qualsiasi cosa, eppure sembra quasi non sia vero. Un villaggio raso al suolo, se nessuno lo può vedere, non fa clamore.

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Manifesti di Hezbollah a Tiro

Se c’è una cosa che mette d’accordo tutti, in Libano, è che dopo Gaza il luogo dove Nethanyau concentrerà la sua attenzione sarà questo. “Sai quanta guerra serve per avere la pace?” è una frase che abbiamo sentito così tante volte. Eppure si capisce bene, soprattutto se dopo essere stati a sud si va in quei quartieri dove la connotazione politica è più chiara, cosa vuole dire. Sui manifesti esposti nelle vie, la politica mostra tutto quello che può offrire al momento. Slogan e muscoli.

A Chatila, tra gli striscioni che inneggiano agli Houti: “Ma molti giovani sono disillusi” 

A Chatila è tutto molto più spinto. Anche le parole d’ordine. Non manca il supporto a Gaza, che è fuori discussione visto che qui, prima, era la casa dei palestinesi. C’è rimasto il cimitero dei martiri per la Palestina ma solo il 20% di chi abita qui ha quelle origini. Troviamo striscioni che inneggiano agli Houti come a tutti i nemici di Israele, c’è persino un omaggio a Saddam. Ma non è più come una volta neppure qui. La diaspora palestinese per molti è solo un racconto ricevuto dagli anziani. Non è più così diffusa quella consapevolezza militante che giusto fino a una decina di anni fa era ancora dominante.

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L’ingresso di Chatila

“La maggior parte dei giovani sono disillusi, gli importa poco o nulla della politica. Queste nuove generazioni non pensano più che le soluzioni ai loro problemi possano arrivare dall’agire politico. Il loro riferimento è più rivolto verso ai “narco” e come modello hanno loro. Guadagnare soldi con i traffici pensano sia la soluzione ai loro problemi. Così, soprattutto a Sabra, la violenza cresce”, spiega Luca Gnagnolari di ‘Un Ponte Per’, una Ong che dal 1991 opera in Italia e in Medio Oriente “per promuovere pace, diritti umani e solidarietà tra i popoli”. Ha creato una palestra popolare insieme a un uomo del posto, Majdi, che l’ha pure costruita, giusto sopra il suo appartamento. Insieme la mandano avanti. A Chatila, per i ragazzi di tutte le fasce di età, non c’è nulla. Una palestra aperta a tutti non è cosa da poco. Chatila non è mai stato un luogo facile, si può dire che è tutto ancora più complicato. Ma è Sabra che è fuori controllo. E’ l’unico posto in cui non c’è preoccupazione per quanto sta accadendo fuori dalle mura di questo ghetto. L’unico fazzoletto di terra in Libano dove nulla sembra preoccupare, se non sopravvivere e poi vedere come va.

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Bandiere di Hezbollah si incontrano in tutto il sud del Libano

“La guerra a Gaza? Una volta finita tocca a noi”

In ogni altro posto è un pensiero che se da un lato cercano tutti in qualche modo di ridimensionare, “La guerra a Gaza? Una volta finita lì, poi tocca a noi” è un’affermazione che si sente ovunque. E la conseguenza di questo “poi tocca a noi” si è appunto concretizzata in questi giorni secondo il principio che per fare la pace c’è bisogno della guerra. I lanci di missili dal Libano al Golan rappresentano l’intenzione di anticipare il nemico che tanto arriverà. Ma farlo ora, che non ha la forza per occuparsi anche di questo. Perché? Per cercare di metterlo in difficoltà, di costringerlo a intavolare una trattativa, un tavolo dove trovare una soluzione mostrando a loro volta i muscoli. Prima dell’ineluttabile. Un azzardo o no, questo non si può sapere. L’unica cosa certa è che costerà tante vite umane, questa pace. Quando e se arriverà.

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