Fame e occupazione: il «negoziato» su Gaza secondo Tel Aviv

17.04.2025
Fame e occupazione: il «negoziato» su Gaza secondo Tel Aviv
Fame e occupazione: il «negoziato» su Gaza secondo Tel Aviv

Nessuna speranza. Nessun margine di trattativa. L’esercito israeliano non lascerà Gaza, gli aiuti umanitari non entreranno e se in futuro questo dovesse cambiare potrà avvenire solo sotto il pieno controllo di Tel Aviv, senza agenzie internazionali a distribuire pasti e medicine. Solo Israele e le società private da lui scelte potranno decidere chi far mangiare e chi lasciar morire di fame, mentre il piano di trasferimento della popolazione continuerà a sfollare la Striscia.

Non c’è più nulla da negoziare, neanche la liberazione degli ostaggi: Hamas deve rilasciare tutti, consegnare le armi e ritirarsi accettando l’occupazione e il controllo totale di Gaza. Altrimenti Israele passerà alla «fase successiva». Il ministro della difesa Israel Katz ha spiegato il piano nel suo lungo comunicato di ieri, ribadendo prima di ogni altra cosa che «la politica di Israele» non consentirà l’ingresso di nessun tipo di aiuti umanitari. Non prima almeno che vengano creati un «meccanismo» e nuove «infrastrutture per la futura distribuzione tramite aziende civili».

L’OBIETTIVO DICHIARATO è che Hamas non riceva nulla. Il risultato sarebbe un’aberrazione del diritto e della morale: uno stato occupante e armato che gestisce il flusso e la distribuzione degli aiuti internazionali alla popolazione che ha sfollato, nell’attesa di riuscire a deportare uno per uno tutti i residenti. Le Nazioni unite hanno risposto immediatamente all’ipotesi, dichiarando che i meccanismi di cui parla Katz già sono utilizzati a Gaza e che la distribuzione avviene «per chi ne ha più bisogno, sulla base di principi umanitari».

L’Onu ha specificato che gli ulteriori controlli paventati da Israele farebbero rischiare «che gli aiuti non raggiungano i più vulnerabili nel momento in cui sono più necessari». In effetti, proprio ieri l’Ufficio media di Gaza ha denunciato che il «completo collasso umanitario» è ormai alle porte e in qualsiasi momento potrebbero svilupparsi fenomeni di «morte di massa» per fame, malattie e mancanza di cure. Medici senza Frontiere ha descritto Gaza come «una fossa comune per i palestinesi e per coloro che li aiutano», accusando Israele di distruggere «sistematicamente» la vita della popolazione.

Ma c’è chi crede che il governo di Tel Aviv non stia facendo ancora abbastanza. Il ministro della cultura Miki Zohar ha criticato l’idea di Katz di affidare a un meccanismo la distribuzione degli aiuti. Questi ultimi, secondo Zohar, non dovrebbero entrare sotto alcuna forma: «Gli spregevoli assassini a Gaza non meritano assistenza umanitaria da parte di alcun meccanismo civile o militare», ha scritto in un post su X, invocando per la Striscia il «fuoco infernale».

NON SEMBRA mettano pressione i video degli ostaggi rilasciati da Hamas, come il filmato che mostra Rom Braslavski implorare il governo perché contratti il proprio rilascio. E così, mentre il movimento islamico fa sapere che non è disposto a sottoscrivere un accordo che non preveda il ritiro di Israele da Gaza, Katz specifica con rinnovata chiarezza che a differenza del passato l’esercito non abbandonerà le aree controllate e che nessun tipo d’intesa potrà mettere in discussione l’occupazione, a Gaza come in Libano e in Siria.

Nonostante il ministro della difesa abbia concluso la sua sfilza di dichiarazioni rassicurando la popolazione sull’unità e la determinazione dell’esercito, in Israele si allunga la lista di chi chiede di fermare le operazioni militari per lavorare sulla liberazione degli ostaggi. Più di duecento ex agenti di polizia hanno firmato un pubblico appello, unendosi ai membri di aeronautica e intelligence che avevano già sottoscritto una richiesta simile.

Ieri, intanto, i militari hanno bombardato a Gaza City la casa in cui la giornalista Fatima Hassouneh viveva con i parenti, uccidendola insieme a dieci membri della sua famiglia. Fatima era una scrittrice e una fotografa. In un’intervista rilasciata prima della sua morte ha raccontato che il 13 gennaio del 2024 un attacco aveva già ucciso undici familiari e che l’unica arma che aveva per conservarne la memoria era la sua macchina fotografica: «Con questa scheda di memoria posso cambiare il mondo, proteggermi, mostrare cosa sta accadendo a me e agli altri e preservare la storia della mia famiglia dall’oblio».

1.652 palestinesi sono stati uccisi dal 18 marzo, quando Israele ha ripreso gli attacchi dopo il cessate il fuoco; 4.391 i feriti. Dall’alba al tramonto di ieri i bombardamenti hanno ammazzato 25 palestinesi.

GLI ATTACCHI ISRAELIANI non si fermano neanche in Cisgiordania. Nei pressi di Jenin l’esercito ha colpito a morte due giovani, Mohd Omar Zakarneh di 23 anni e Mirth Yasser Khzemiyeh di 19 e ha sequestrato i loro corpi. Dal 7 ottobre nella West Bank i militari hanno ucciso 957 persone.

Anche in Libano proseguono attacchi e assassinii mirati. In due giorni Tel Aviv ha ammazzato due persone. Secondo l’Onu, 71 civili sono stati uccisi da Israele dall’inizio della tregua con Hezbollah.

Oggi è la Giornata dei Prigionieri

Oggi in tutta la Palestina storica si commemora la Giornata dei Prigionieri politici. La prima risale al 1974 in ricordo del primo detenuto liberato in uno scambio con Israele, Mahmoud Bakr Hijazi. Oggi sono 10mila i detenuti politici di Gerusalemme est e Cisgiordania nelle carceri israeliane, tra loro 400 bambini, 27 donne e 3.500 amministrativi (senza accuse né processo). 16.400 arresti dal 7 ottobre 2023 a cui si aggiungono tra i 3mila e i 5mila gazawi. Dal ’67 Israele ha detenuto per motivi politici oltre un milione di palestinesi.

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