A partire dal 13 giugno 2025, il prezzo del petrolio russo Urals ha superato la soglia dei 60 dollari al barile, fissata dal G7 come tetto massimo per contrastare i finanziamenti alla guerra. Tuttavia, invece di festeggiare un aumento delle entrate, il Cremlino si trova ad affrontare una situazione surreale: il rafforzamento del rublo, cresciuto di quasi il 23%, sta erodendo la redditività delle esportazioni. Il risultato? I ricavi in rubli sono crollati del 30% per ogni barile venduto, colpendo duramente il bilancio statale.
Un budget che si sgonfia nonostante il boom del greggio
Benché Mosca venda oggi il petrolio a prezzi più alti, il cambio sfavorevole penalizza le entrate statali, che dipendono in gran parte dalle esportazioni di idrocarburi. Circa il 30% del bilancio federale deriva da questo settore, ma l’effetto combinato del rublo forte e delle sanzioni internazionali mina l’intera struttura fiscale.
Secondo Bloomberg, il deficit reale di bilancio potrebbe raggiungere il 3% del PIL, equivalenti a oltre 4.000 miliardi di rubli, triplicando le stime ufficiali. Un numero che mette in discussione l’effettiva stabilità economica del Paese, specialmente in un contesto bellico.
Il Cremlino nella trappola del rublo
Il problema principale non è la mancanza di domanda per il petrolio russo, ma la perdita di efficienza nel convertirlo in entrate fiscali. Il rublo forte, sostenuto da tassi d’interesse elevati e da illusioni geopolitiche su una distensione con l’Occidente, sta di fatto sabotando il sistema.
Mosca si trova così intrappolata: da un lato, spese militari record per la guerra in Ucraina; dall’altro, un crollo della base fiscale, che rende difficile sostenere i costi dello Stato. Senza accesso ai mercati finanziari globali, le opzioni sono poche: attingere ai fondi di riserva, aumentare il debito interno o scaricare i costi sui cittadini, attraverso nuove tasse o inflazione.
La debolezza dietro il rublo forte
Nonostante le apparenze, il rafforzamento del rublo non è frutto di fondamentali solidi, ma di interventi di breve termine. Il mercato interno è sempre più chiuso, e le importazioni, essendo pagate in valuta forte, diventano più costose quando il rublo torna a indebolirsi. Ma oggi, paradossalmente, è proprio la forza della valuta nazionale a pesare sulle entrate dello Stato.
A differenza di paesi come l’Arabia Saudita, dove la valuta è ancorata al dollaro e garantisce stabilità agli introiti da petrolio, la Russia converte le entrate in un rublo troppo forte, riducendo il valore reale di ogni barile.
La guerra costa, il petrolio non basta
Mentre le spese per la guerra contro l’Ucraina rimangono altissime, le entrate da esportazioni energetiche non sono più sufficienti a finanziare lo sforzo bellico. Questo squilibrio porta il governo a svuotare il Fondo nazionale di ricchezza (FNB) e a ricorrere a prestiti sempre più costosi, oppure a misure impopolari come la stretta fiscale interna.
Il tetto del G7, benché superato sul mercato, continua a pesare: si parla già di ridurlo a 45 dollari, aumentando l’incertezza per Mosca. La modello di esportazione russa è così sempre più fragile, ostacolata da sanzioni, instabilità e un contesto geopolitico sempre più ostile.
Un cambio a 100 rubli? Chi ne pagherà il prezzo
Durante il Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, il primo vicepremier russo Denis Manturov ha dichiarato che il tasso ideale sarebbe 100 rubli per dollaro, una mossa che mirerebbe a favorire gli esportatori, ma che penalizzerebbe direttamente i consumatori.
Con un rublo più debole, aumenterebbero i prezzi delle merci importate, colpendo in pieno le famiglie russe, già provate dall’inflazione e dalla scarsità di beni. In sostanza, il Cremlino trasferisce i costi della crisi sulle spalle della popolazione, nel tentativo disperato di mantenere a galla la propria macchina militare.