La crisi senza fine della Germania

06.09.2024
La crisi senza fine della Germania
La crisi senza fine della Germania

Stime sulla crescita tagliate e nuovo tonfo della produzione industriale: l’economia tedesca non riesca a uscire dal guado “e languisce nella depressione”, avverte l’Ifo.

Quando Volkswagen ha annunciato la possibilità di chiudere le patrie fabbriche e licenziare operai tedeschi in massa, il segnale è arrivato a tutti, anche a coloro che non masticano economia: la Germania è entrata in una crisi strutturale così profonda da non riuscire a vederne ancora una via d’uscita, nonostante i larghi surplus di bilancio dello Stato e l’export commerciale ancora sostenuto. E gli ultimi dati dell’Ufficio federale di statistica Destatis confermano la gravità della situazione: a luglio, la produzione industriale tedesca ha subito un tonfo del 2,4%, quasi cinque volte superiore a quello previsto dagli analisti. Mentre tre importanti istituti di ricerca hanno tagliato significativamente le loro stime economiche per l’anno in corso e quello successivo: secondo l’Istituto Leibniz per la ricerca economica (RWI) di Essen il prodotto interno lordo (PIL) aumenterà solo dello 0,1%. Come dire, crescita zero e spettro recessione.

Crisi e depressione

“L’economia tedesca è bloccata e languisce nella depressione”, ha affermato il capo dell’economia dell’istituto Ifo Timo Wollmershäuser. “La crisi è innanzitutto una crisi strutturale”, si legge nel bollettino periodico dell’Ifo diramato giovedì. “La decarbonizzazione, la digitalizzazione, il cambiamento demografico, la pandemia del coronavirus, lo shock dei prezzi dell’energia e il cambiamento del ruolo della Cina nell’economia globale stanno mettendo sotto pressione modelli di business consolidati e costringendo le aziende ad adattare le loro strutture produttive”, aggiunge l’istituto. Che però sottolinea: “La Germania è particolarmente colpita da questi cambiamenti più di quanto avenga in altri Paesi”. Ed è qui proprio il passaggio che spiega la “depressione” che si vive nel Paese da qualche tempo a questa parte: da motore della crescita dell’Europa, la Germania oggi non solo vede Usa e Cina giganteggiare sulla scena internazionale, ma subisce anche l’onta di vedere altri Paesi europei. “Il più grande Stato membro sta diventando un peso per il resto dell’Unione europea, una zavorra che trascina verso il basso il resto del continente”, dice l’economista Henrik Müller.

Il nodo dell’auto

La crisi è innanzitutto una crisi industriale: “Le industrie ad alta intensità energetica, che rispondono agli elevati costi energetici, così come l’ingegneria meccanica e l’industria automobilistica, che sono esposte alla crescente concorrenza della Cina oltre alle ristrutturazioni legate alla decarbonizzazione e alla digitalizzazione, hanno un peso maggiore rispetto ad altri Paesi”, scrive l’Ifo. E la zavorra nella zavorra è sicuramente il settore automobilistico, il simbolo più lucente del boom economico della Repubblica federale dei decenni passati, il cui valore per l’economia è stimato in 564 miliardi di euro. Il passaggio dal motore a combustione (inventato in Germania e orgoglio della manifattura tedesca) all’elettrico ha messo in seria crisi i giganti di casa, a partire da Volkswagen. E potrebbe innescare una crisi occupazionale storica per il Paese. 

La disoccupazione

Dopo aver toccato il minimo storico del 4,9% nella primavera del 2019, il tasso di disoccupazione in Germania è salito al 6%. Un dato che non è poi così allarmante, ma “gli esperti avvertono che le cifre mascherano un calo del lavoro manifatturiero altamente qualificato e ben pagato, e che ci saranno ulteriori problemi in quanto i giganti industriali faranno fatica a far fronte agli elevati prezzi dell’energia, alle scarse esportazioni e ai cambiamenti tecnologici”, scrive il quotidiano britannico Financi al Times. “Il potenziale della forza lavoro si sviluppa in modo meno favorevole e la popolazione invecchia più rapidamente”, segnala l’Ifo. 

Non sono solo le fabbriche di automobili a rischio chiusura, ma anche quelle dell’indotto: Continental ha deciso di uscire dal settore dei ricambi per auto e concentrarsi sugli pneumatici, tagliando migliaia di posti di lavoro. In altri settori, grandi aziende come SAP, Miele e Bayer hanno annunciato più di 55mila tagli di posti di lavoro quest’anno. Altri giganti industriali come Thyssenkrupp e BASF stanno negoziando con i sindacati per ridimensionare il personale.

L’industria a un bivio

Questi tagli, anche nel recente passato, non avrebbero suscitato particolare clamore, data la capacità del settore manifatturiero tedesco di riassorbire i licenziamenti. Ma oggi la situazione sembra molto diversa. Il problema principale è il futuro dei colossi industriali del Paese dinanzi alla transizione. La “rivoluzione verde” promessa dal governo di Olaf Scholz sembra un incubo dal punto di vista degli operai, e sta alimentando la crescita dei populismi, a partire da quella del partito di estrema destra dell’AfD. Ma secondo diversi esperti, arroccarsi nella difesa di modelli industriali che si stanno dimostrando inadatti a competere nel nuovo contesto globale, potrebbe essere la condanna della Germania, anziché una soluzione alla crisi.  

Verena Pausder, presidente della German Start-up Association, ritiene che il Paese abbia bisogno di un cambiamento di mentalità: “Penso che siamo davvero bravi a elencare tutte le cose negative e quelle in cui non siamo bravi. E penso che quello che stiamo dimenticando è quello che riusciamo effettivamente a fare”, ha detto all’emittente britannica Bbc. Nonostante la crisi, l’anno scorso sono state fondate quasi 2.500 start-up in Germania, e questo sta aiutando a fare passi avanti nella transizione verso l’energia verde. Quello che manca, però, è il supporto dei grandi capitali all’innovazione: i fondi pensione tedeschi, che valgono più di 700 miliardi di dollari, preferiscono puntare sui vecchi giganti industriali, lasciando le briciole alle nuove imprese. “Siamo abituati a questi grandi marchi del passato e vogliamo fare di tutto per averli in futuro. E a volte investiamo troppa energia nel conservare ciò che abbiamo anziché investire in cose nuove”, è l’amaro commento di Pausder.

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